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Regina arrivò in ufficio con dieci minuti di ritardo, cosa che ovviamente sua madre non fece che sottolineare durante la riunione mattutina. Avrebbe avuto bisogno di molto caffè, pensò mentre si massaggiava le tempie.

Le ricerche per il caso Hatter le rubarono tutto il resto della mattina. Alle undici, al quarto caffè, decise che era il momento di iniziare a stampare le prove raccolte e cercare di vedere il quadro completo. Mandò tutti gli allegati del caso in stampa e attese che la stampante sputasse fuori tutti i fogli. Biadesivo, una parete bianca e la certezza che sua madre si sarebbe infuriata se fosse entrata nel suo ufficio: non avrebbe sopportato il caos che stava creando sul muro. Ma per lei, quel caos aveva un ordine ben preciso.

Jefferson Hatter, trovato sgozzato in casa sua dalla polizia. Porte e finestre chiuse dall'interno, nessuna arma del delitto. Sotto alla foto della vittima, rubata dal profilo Facebook, poche note: 37 anni, divorziato, una figlia (Grace, 11 anni), sarto.

Ad allertare la polizia era stata la vicina, Katherine Nolan. Divorziata anche lei, niente figli, un gatto, infermiera. E anche la prima sospettata: nel condominio erano note le liti tra i due, motivo per cui la donna aveva allertato la polizia; Katherine, infatti, si lamentava del volume dello stereo di Hatter, che le impediva di dormire (accadeva spesso). Katherine era sola in casa, nessuno poteva confermare il suo alibi (stava cercando di riposare dopo un turno di tredici ore al Seattle Children's Hospital). Katherine, che era anche la sua cliente e che, per il momento, era tornata nel suo appartamento su cauzione. Katherine, che aveva bisogno che Regina trovasse il vero colpevole, altrimenti sarebbe finita in prigione.

Regina appuntò sul muro le foto degli altri vicini. Leroy Dwarf, noto ubriacone del quartiere, che passava le sue giornate al pub sotto casa. August Booth, scrittore fallito, quasi sempre in viaggio sulla sua motocicletta. Belle French, bibliotecaria, e la sua coinquilina Ruby Lucas, cameriera al diner all'angolo.

Nessuno di loro aveva un movente per uccidere Jefferson Hatter. Nessuno tranne Katherine, ma Regina doveva assolutamente dimostrare che Katherine fosse innocente.

Si allontanò di un passo, osservando la parete tappezzata di foto da lontano. Il vero mistero era la scena del crimine. Sembrava che Hatter si fosse suicidato, ma il coltello con cui avrebbe dovuto tagliarsi la gola non c'era, e di certo non poteva averlo nascosto lui. La polizia non aveva trovato impronte o DNA estraneo, tranne quello della figlia, ma era chiaro che risaliva a una visita precedente al decesso.

Regina aveva pensato all'ex-moglie, ma la donna aveva un alibi di ferro: lavorava, quando Hatter era morto. Ancora non era riuscita ad ottenere il permesso di visitare l'appartamento di Hatter, ma sperava di riuscirci in settimana. Ne aveva bisogno, se voleva venire a capo di quella matassa.

Nel frattempo, aveva spulciato i social della vittima. Hatter non era un tipo particolarmente su internet, ma promuoveva su Instagram e Facebook la sua sartoria. Era bravo, c'era da ammetterlo, e la specializzazione nel creare cappelli la incuriosiva. Non era una cosa molto comune, dopotutto.

Di foto personali ce n'erano poche. Un paio con la figlia con il viso coperto da un'emoticon, due con gli amici al pub. Guardando i tag aveva scoperto i loro nomi: Victor Stein e Graham Humbert. Loro sì che erano interessanti, perché i loro profili erano privati. Ma lei aveva appena cominciato, e avrebbe capito cosa nascondevano.

Guardò l'orologio quando il suo stomaco brontolò. Mezzogiorno e un quarto.

Fuggì dall'ufficio prima che la madre la bloccasse con qualche riunione con noiosi clienti di multinazionali. Non era diventata un avvocato per proteggere qualche stronzo miliardario.

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