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La cravatta Matteo la porta ancora storta, che dopo vent'anni quel nodo ha imparato a farlo, ma a star fermo ancora non riesce, ed allora ci gioca, la sposta mentre sorride e la sua bocca si storpia di "Maestro!" "Dottore, che piacere!" ed ancora "Tutto apposto, Professore?" a quei clienti gonfi di cibo e smorti di storia, della quale non riuscirebbe a ripercorrere un solo passo indietro, senza distrarsi al rumore delle onde che giocano a scagliarsi sulla spiaggia.

E non è affatto modesto, quel mondo strutturato a balconcino, a strapiombo su Ostia e la sua morte, laddove finisce ed inizia allo stesso modo, e ne è fiero, tanto che ne vive come ne fosse marmo, o sedia, o tavolo, o come queste fossero suoi polmoni, e braccia, e sorrisi.

Non era che un piccolo chiosco, ai suoi albori, timido a quei panini miseri e grondanti di olio sulla carta spessa a cui venivano raggomitolati, ed ogni tanto ci pensa ancora, Matteo, piatti saldi nella mano e pacche goffe e soddisfatte sulla schiena, a tutto quello che è riuscito a sovvertire.

Ma è venerdì sera, metà Settembre, ed il vento è ancora gentile che gli uomini si coprono solo di camice, e le donne di sola pelle, ma non lì, non fra i suoi tavoli, non sulle sue sedie, non in questo giorno.

Vi è una sola tavolata a riempirne il balconcino, una sola da venti sedie strette strette, ed i tovaglioli di carta sventolano piano a farne la pace, soli ad aspettare i loro ospiti.

Sempre gli stessi, sempre lo stesso posto, da vent'anni, ogni anno con più rughe, ogni anno più lontani, che almeno da dieci bisognava stare attenti a tenere due posti abbastanza distanti, che Monica e Giulio non dovevano neppure sfiorarsi l'uno con lo sguardo dell'altro, e da cinque sparivano i posacenere, che Laura aveva sempre il pancione addosso, e troppa vita in grembo per respirarne la morte.

Ed erano sempre gli stessi, gli stolti incapaci alla vita, legati a filo doppio e tre nodi in cima al piacere adolescenziale d'aver sfiorato la felicità, decostruiti poi in giovani soli ed adulti incapaci, ricolmi di un alcol che non si colorava degli stessi sorrisi d'un tempo.

Matteo, che gli attendeva, e Giulio, Laura, Monica e Chicca, che Chicca non era più, che si chiamava Francesca e portava il brutto cognome del suo brutto notaio, e Pin, che passava e salutava soltanto "Sono a cena con mia moglie" diceva ogni anno, ed ogni anno ritornava alle scartoffie del suo ufficio, e Aureliano, che Matteo glielo diceva sempre, pareva ancora un ragazzino, e che a guardarlo senza barba e senza pensieri rendeva un po' più felici tutti, e Manuel che metteva la camicia sui pantaloni del lavoro e non si scrostava mai le mani abbastanza, prima di correre a quel frammento di serenità dopo il turno.

Gli altri posti rimanevano vuoti invece, anche se Matteo lo assicurava sempre, "Arriveranno" diceva "Nessuno se può risparmià na cena gratis in sto posticino che v'ho acchitato", e nessuno arrivava mai.

E sempre più piccolo, Giulio, sempre più misero, sempre più nudo, fermo alla sua sedia all'altro lato della tavola, anche quell'anno, con la forchetta vuota come lo è la pancia , e gli occhi persi a ricalcare la forma della voce dell'altra, timida com'è rigida, come solo lei riesce ad essere, quasi sommessa a rispondere alle domande vuote di un Manuel stanco, che alla sua fatica richiede solo la dolcezza del bel sorriso di una donna, forse per sentirsi ancora uomo ai suoi pensieri.

"E ve sposate?" chiede a frammentare il risucchio di quegli spaghetti, tanto distanti dalle scatolette ad attenderlo, mezze aperte da una settimana, nel frigo spento del suo piccolo appartamento di periferia.

Monica sorride, e a Manuel basta questo, ma non lo capisce mica quanto sia triste sotto quello sguardo, che s'abbassa di fretta per non voltarsi, che poi allora camminare diritta sarebbe difficile, e gioca invece con il suo anello, che, pensa Giulio, è troppo eccentrico e non le dona affatto, che a Monica il blu non è mai piaciuto, ne tantomeno s'è mai vestita d'argento.

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