La Preghiera Di Akmat

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Nell'estate del 98, decisi di partire assieme ai miei amici di vecchia data: Michael, Alan, Miguel e Joe. Sentivamo di aver bisogno di evadere dalle metropoli e poterci purificare. Decidemmo quindi di andare in un posto diverso dalla solita movida estiva, diverso da tutti i posti visitati in precedenza, per entrare in contatto con una natura che non appartenesse a quella che eravamo soliti vedere nella nostra terra.
Decidemmo allora di volare in Indonesia.

Non appena arrivammo, quel luogo sembrò liberarci l'anima. Le persone erano genuinamente accoglienti, come se l'intero territorio fosse la loro casa e noi ospiti da trattare con riguardo. Le strade non avevano nulla a che vedere con quello a cui eravamo abituati, tutto era circondato da alberi, piante e animali che vagavano per le strade, senza timore, apparendo come parte integrante della comunità.

Soggiornammo in un ostello poco distante dal centro della città. A gestire la struttura si trovava una paffuta signora di nome Lilia, che sembrava sempre essere indaffarata in chissà quale lavoro nel retrobottega; nonostante ciò, trovava sempre del tempo per daci consiglio su quali luoghi visitare e quali sentieri fosse meglio percorrere.
Proprio come ci eravamo ripromessi, la vacanza si incentrò sul risveglio dei nostri sensi, cercando di ristabilire il primordiale contatto con madre natura.

Visitammo delle splendide foreste dalla fauna indescrivibile, ammirammo paesaggi mozzafiato e giungemmo fino ai monasteri situati in punti in cui non avresti mai pensato potessero sorgere.
Quel luogo era così autentico che perfino il tempo non sembrava trascorrere allo stesso modo al quale eravamo abituati. Improvvisamente, ci accorgemmo di quanto in fretta i giorni fossero passati e che di lì a breve avremmo dovuto lasciare quell'incantevole territorio.

L'ultimo giorno della nostra vacanza chiedemmo alla signora della locanda di indicarci un ultimo luogo che ci avrebbe potuto regalare un'ultima esperienza indimenticabile, migliore, se possibile, di quelle dei giorni precedenti.
Questa sorrise guardandoci negli occhi uno ad uno, poi ci consigliò un luogo per il quale suggerì di portare con noi uno dei suoi figli, dicendo che ci sarebbe tornato utile come traduttore.
Ci disse di andare a nord seguendo un piccolo sentiero fuori dalla strada battuta, che conduceva al villaggio di un'antica tribù autoctona.
Prima di partire tornò nel retrobottega e ci affidò dei medaglioni da indossare per essere riconosciuti da quegli individui.
Così, il giorno seguente, partimmo all'alba.

Quado arrivammo nel luogo indicatoci dalla donna, fummò improvvisamente raggiunti da una dozzina di individui seminudi, vestiti con indumenti ricavati dalle piante. Ci avvolsero euforici, non riuscivano a contenere la loro curiosità nel notare degli stranieri dalla carnagione così chiara. Per questo motivo ci esaminarono a lungo prima di guidarci al loro villaggio.
Il territorio coincideva sorprendentemente con il mio immaginario: vi erano diverse capanne, realizzate in legno e fogliame, sparse tra gli alberi, ognuna abitata da almeno cinque individui. Ciascuno contribuiva al sostentamento della tribù, la quale parve essere gestita da un anziano sciamano con il volto ricoperto da singolari simboli. Questi ci accolse altrettanto vivacemente, ci mostrò alcune delle abitazioni tipo del loro villaggio e infine condividemmo con la comunità un pasto frugale.
Più tardi, guidati dal loro sciamano, assieme ad altri individui, lasciammo il piccolo villaggio per un rito che la nostra guida ci informò essere un'usanza spirituale condotta dalla tribù.
Dopo circa un'ora di cammino giungemmo all'ingresso di una grotta. Il luogo era notevolmente umido, sulle pareti vi erano incise delle scritte in una lingua che non riuscivamo a leggere, tutto era illuminato da torce conficcate nel terreno che circondavano l'intera grotta.
Seguirono una serie di preparativi, accesero le torce, sparsero a terra della sabbia colorata. Alcuni ripulirono il terreno dai residui di un vecchio falò, altri posizionarono a terra dei giacigli realizzati con delle fibre prese dalle pianti circostanti. Una volta aver sistemato tutto gli indigeni iniziarono a pregare, si inginocchiarono attorno ad un altare nel centro della caverna, inneggiando ad una qualche divinità nella loro criptica lingua. Il figlio di Lilia ci disse che anche noi avremmo dovuto imparare quella preghiera, non era molto difficile e riuscimmo a memorizzarla immediatamente, anche perchè risultava discretamente melodica, nonostante risuonasse come una sorta di lamento.
Dopodichè, si prepararono per dormire. "Che rito insolito" pensai. Mi dissero però che si trattava di una caratteristica di quel popolo. Non dormivano durante la notte come noi, bensì seguivano un regime di micro sonni pianificati nell'intera giornata, all'incirca ogni quattro ore, sempre preceduti dalla preghiera. Pensai che si trattasse di un'usanza interessante, quantomeno per i primi giorni, ma che alla lunga sarebbe risultata estenuante. Così ci mettemmo a dormire nei giacigli ordinati in cerchio attorno l'altare, o almeno ci provammo, visto che non avevamo minimamente sonno.

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