6:20.
Socchiusi gli occhi, mugugnando infastidita e allungando una mano per spegnere la sveglia e il suo trillo insopportabile. Quale essere umano sano di mente poteva davvero svegliarsi alle 6:20?
Passai il quarto d'ora successivo con la testa sotto il cuscino, impegnata a posticipare l'orario ogni due minuti. Cha maledizione, pensai mentre mi tiravo a sedere per stiracchiarmi. Ripassai mentalmente la scaletta che in realtà conoscevo a memoria, passando una mano tra i capelli e sciogliendo la coda arruffata in cui li avevo raccolti.
Primo obiettivo: trascinarmi in cucina.
Secondo – e fondamentale – obiettivo: tazza nel microonde, un minuto e dodici secondi. Caffè Nespresso Volluto, rigorosamente senza zucchero, bevuto in un bicchierino di vetro. Cinque minuti totali per consumare la colazione.
Terzo obiettivo: percorrere il corridoio e puntare dritta al bagno per prepararmi. Outfit intramontabile, semplice ed efficace: jeans a sigaretta, canottiera, Stan Smith bianche e verdi e un filo di trucco, a cui aggiunsi uno chignon scomposto ma chic con cui provai a tenere a bada la massa di capelli che mi ritrovavo. Li amavo sciolti, ma luglio era un mese improponibile anche solo per poterla prendere in considerazione come idea, soprattutto per chi come me sopportava a malapena il caldo.
Quarto obbiettivo: fissare l'orologio da polso e imprecare in maniera davvero poco femminile, prendendo al volo la borsa e correndo – nel senso letterale della parola - per raggiungere la metropolitana.
Un'ottima tabella di marcia, verrebbe da pensare. Risultato? Ero sempre, perennemente, in ritardo. Forse avrei dovuto iniziare a puntare la sveglia un quarto d'ora prima.
Scesi le scale della metropolitana e mi lanciai nel treno che stava per chiudere le porte. Sentii gli occhi di molte persone puntarsi sul mio viso costellato di lentiggini scure, mentre cercavo un posto abbastanza riparato in cui rifugiarmi. Odiavo le occhiate curiose della gente. Mi rannicchiai sullo scomodo sedile, incrociando le braccia e accavallando le gambe. Mancavano venti minuti alla mia fermata. Mai come in quel momento mi sembrarono un'eternità.
Poggiai la testa contro il finestrino, facendo sobbalzare nervosamente il ginocchio. Accesi e spensi Spotify almeno quattro volte, prima di arrendermi e chiudere l'app. Ero agitata come una bambina il primo giorno di scuola.
Beh, in realtà era davvero il mio primo giorno. Nientepopodimeno che per i Boston Celtics, squadra di basket tra le più quotate dell'NBA, e avevo la necessità di fare una buona impressione. Arrivare sudata e in stato pietoso non avrebbe di certo aiutato la mia causa, così presi un paio di profondi respiri e cercai di tranquillizzarmi. I vecchi ricordi del corso di yoga che avevo frequentato all'università mi tornarono utili, facendomi rilassare le spalle e rallentare il battito del cuore.
Molto meglio. Molto meglio.
Scorsi il nome della stazione e mi alzai, facendomi largo tra la moltitudine di persone accalcata oltre le porte e scegliendo di salire con le scale mobili invece che a piedi. Di solito non lo facevo, ma per una volta mi lasciai convincere dalla pigrizia.
Quando riemersi lasciai che la brezza che arrivava dal mare mi rigenerasse, nonostante il porto fosse lontano, inclinando la testa verso l'alto e godendo del sole sulla pelle. Aggiustai la tracolla sulla spalla e mi incamminai lungo la via affollata, diventando un puntino anonimo tra la gente.
Avendo collaborato in un piccolo centro riabilitativo accanto alla sede del Club sportivo e contando il fatto che il mio migliore amico Clark lavorava per loro, non ebbi bisogno di controllare la strada. Ne approfittai per ripassare il breve discorso di presentazione che mi ero preparata e dare una sistemata al mio aspetto stravolto. Ero stata raccomandata da Mary Kate Johnson, mia docente universitaria che aveva deciso di passarmi il testimone, preferendo dedicarsi esclusivamente alla carriera accademica; non volevo di certo farle fare brutta figura.
Varcai la soglia del club dieci minuti più tardi del previsto. Mi schiarii la voce richiamando l'attenzione della receptionist, che il cartellino contraddistingueva con il nome di Emily. «Buongiorno, avrei appuntamento con il dottor Sasha Rodriguez».
La ragazza mi osservò da dietro i suoi occhiali squadrati. «Lei è?», domandò mentre digitava un numero sulla tastiera numerica del telefono.
«Dottoressa Rayne Weston», raddrizzai la schiena e sfoderai un sorriso che sperai fosse professionale.
«La dottoressa Weston è qui». Pausa, in cui mi sudarono le mani. Le asciugai strofinando i palmi contro i jeans, spostando il peso da un piede all'altro. «D'accordo», Emily annuì un'ultima volta prima di riattaccare, facendomi cenno di percorrere il corridoio alla mia sinistra. «Terzo ufficio, porta a vetri. Ben arrivata», e mi congedò con un sorriso finto.
Inspirai velocemente prima di entrare nello spazioso ufficio arredato con gusto che mi era stato indicato. I vetri puliti alla perfezione erano decorati dal simbolo dei Boston in smerigliatura opaca, risaltando come se fosse sospeso in aria.
Dietro la scrivania di legno scuro sedeva un uomo se non bello, di sicuro affascinante, come solo i sudamericani sapevano essere; era più grande di me, ma non seppi stabilire quanti anni potesse avere.
«Rayne, benvenuta», si alzò con un'espressione cordiale, allungando la mano nella mia direzione. La strinsi con vigore, rimanendo impressionata da quanto fosse calda la sua presa. «Posso darti del tu, vero?».
«Certamente, dottor Rodriguez».
«Solo Sasha, altrimenti rischio di sentirmi ancora più vecchio», indicò la poltrona di pelle di fronte alla sua, invitandomi ad accomodarmi. Aprì una cartellina verde pallido, sfogliando con attenzione quello che immaginai essere il mio curriculum e la lettera di presentazione della professoressa Johnson. «Vedo che Mary Kate non si è risparmiata», gli sfuggì una risatina, mentre incrociava le mani sopra i fogli per dedicarmi tutta la sua attenzione. «Devi averla davvero impressionata. Di solito non spreca la sua parola per nessuno».
«La ringrazio», mi morsi il labbro, dimenandomi sulla sedia. «Volevo dire, ti ringrazio, Sasha. Spero di non deludere le vostre aspettative».
«Ci conto, ma a essere sincero non nutro alcun dubbio», mi fece l'occhiolino, lasciando scivolare nello spazio tra di noi due plichi di fogli ben allineati. «Qui c'è il contratto per il tuo apprendistato con i Boston Celtics, per la durata di dieci mesi a partire da domani. I ragazzi cominceranno la preparazione atletica tra qualche giorno e voglio che inizi a conoscerli, a entrare in sintonia con i nostri metodi di lavoro e a prendere confidenza con questo ambiente. Sarà tutto diverso da quello con cui hai avuto a che fare fino a ora, immagino tu lo sappia». Sasha fissò i suoi seri occhi nocciola nei miei, mettendomi in soggezione e a mio agio allo stesso tempo. Non c'era rimprovero in quello sguardo, solo avvertimento. «Non credo sia necessario dirti che la discrezione è la dote principale da possedere. Niente di quello di cui verrai a conoscenza dovrà in qualche modo uscire da qui, chiaro?».
«Certo», annuii con convinzione.
«Sei giovane, ma conto sul tuo buonsenso. Hai ottimi voti e una discreta esperienza, falli valere». Mi porse la penna, una meravigliosa stilografica nera e lucente, distendendo il volto nell'espressione cordiale di poco prima. «Se pensi di potercela fare, sarò più che felice di farti entrare nella squadra».
Presi la penna, lasciandola sospesa sopra la linea tratteggiata dove era riportato il mio nome in stampatello. Avevo un milione di difetti, ma ero brava nel mio lavoro, lo sapevo. Avevo faticato, mi ero impegnata per raggiungere passo dopo passo il traguardo che mi ero prefissata. Ora non mi restava che scattare per lo sprint finale.
Rafforzai la presa sulla penna e firmai entrambe le copie del contratto, ricambiando il sorriso soddisfatto del dottor Rodriguez.
«Rayne, un'ultima cosa», Sasha mi richiamò mentre socchiudevo la porta dell'ufficio. Un brivido veloce mi corse lungo la schiena, ma non riuscii a capire a cosa fosse dovuto. Diedi colpa all'adrenalina per il futuro che avevo appena accettato di seguire. «Stai attenta».
Corrugai la fronte, voltandomi completamente verso di lui. «Certo, farò in modo che nessuno possa lamentarsi. Userò guanti di velluto», sogghignai, sperando che cogliesse la battuta e stemperando così la strana tensione che si era venuta a creare. Non successe. Deglutii.
«Oh, non è di te che dubito», intrecciò le dita davanti alla bocca, rivolgendomi un'occhiata a metà tra il preoccupato e l'indeciso, «è di loro. Non abbassare mai la guardia».
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Scommettiamo?
Romanceᴛʀɪsᴋᴇʟʟ ᴇᴅɪᴢɪᴏɴɪ - 1 ᴍᴀʀᴢᴏ 2024 𝑷𝒓𝒆𝒐𝒓𝒅𝒆𝒓 𝒅𝒊𝒔𝒑𝒐𝒏𝒊𝒃𝒊𝒍𝒆 𝒊𝒏 𝒕𝒖𝒕𝒕𝒆 𝒍𝒆 𝒍𝒊𝒃𝒓𝒆𝒓𝒊𝒆 𝒆 𝒔𝒕𝒐𝒓𝒆 𝒅𝒊𝒈𝒊𝒕𝒂𝒍𝒊 Rayne Weston è sicura di due cose: la prima, è che l'occasione di lavorare come fisioterapista nella squadr...