2 - TJ

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C'era qualcosa di eccitante nel tornare alla normalità. Alle strade che avevo percorso un giorno dopo l'altro, fin da quando ero ragazzino.

La città era incredibilmente silenziosa a quell'ora, l'alba era spuntata da poco e gli unici rumori erano quelli di un mondo che si stava svegliando.

Per quanto avessi amato la Nuova Zelanda, niente poteva essere paragonato a Boston, al suo caos frenetico, alle vie che sembravano appartenere a un'altra epoca piene di case in mattoni rossi e al contrasto che regalavano accanto ai grattacieli che svettavano nel centro modaiolo della metropoli. Era casa.

La spiaggia era deserta e il suono dell'oceano faceva da contraltare al tonfo sordo dei miei piedi sulla sabbia. Rallentai solo un istante, lasciando vagare lo sguardo verso l'orizzonte e le onde che si gonfiavano in lontananza. Ero rientrato da un paio di giorni, ma mai come in quel momento mi accorsi di quanto tutto quello mi fosse mancato.

Abbandonai i rumori dell'oceano e del porto alle mie spalle, continuando a correre a ritmo costante. Sentivo il sudore colarmi lungo la schiena e l'aria frizzante del mattino penetrare sotto la maglia. Sorrisi.

Con il cappuccio ben calato sul viso scesi di corsa le scale verso la fermata della metropolitana più vicina, infilando le mani in tasca e pregando di essere abbastanza fortunato da non essere riconosciuto. Non mi dava fastidio la notorietà, ero vanitoso a sufficienza per crogiolarmi nelle piacevoli attenzioni che inevitabilmente mi venivano dedicate, ma non disdegnavo un po' di sana tranquillità. Un momento in cui potevo essere chiunque e dovunque.

Per questo tirai un sospiro di sollievo quando riemersi in superficie e, svoltato l'angolo di un'anonima via laterale, mi ritrovai di fronte all'insegna dell'Amrheins.

Non era cambiato di una virgola. La piccola vetrina definita da finestre in stile inglese lasciava trapelare la luce calda degli abat-jour che abbellivano ogni tavolo, insieme al grande lampadario di ferro battuto per cui continuavo a prendere in giro Mark, l'anziano proprietario del caffè migliore di tutta Boston.

La porta si aprì con uno scampanellio ed entrai, inspirando a pieni polmoni il profumo che sembrava permeare ogni cosa. Buono, dolce e confortevole.

«Ehi Mark, vecchia canaglia», abbassai il cappuccio, mentre facevo lo slalom tra i tavoli vuoti – tutti diversi uno dall'altro – fino a raggiungere il bancone. «È questa l'accoglienza che riservi a un amico?».

Invece dell'uomo alto e dalla barba curata che conoscevo da una vita, fece capolino una ragazza che non avevo mai visto. Mi guardai intorno, assicurandomi di essere nel posto giusto. Il legno verde degli infissi era sempre lo stesso e la mia fotografia autografata appesa dietro il registratore di cassa non era cambiata.

Se il buongiorno si vede dal mattino, pensai mentre un sorriso sornione mi faceva incurvare le labbra. Oh sì, le gambe lunghe lasciate scoperte dalla minigonna e il generoso decolleté in bella mostra erano davvero un incredibile buongiorno.

Sostenni senza vergogna lo sguardo che la sconosciuta mi lanciò mentre sfregava le mani nel grembiule, stretto attorno alla vita sottile.

«Mio zio non c'è, posso esserti d'aiuto?», ricambiò il sorriso e non mi sfuggì la luce maliziosa che le illuminò lo sguardo.

«Credo proprio di sì...».

«Clare», concluse lei per me allungando una mano, che strinsi leggermente prima di imitare un educato baciamano.

«Clare», ripetei, lasciandola andare con studiata lentezza. Mi presi tutto il tempo per guardarla, immaginando quale suono avrebbe prodotto quella bocca dipinta di rosso quando sarebbe stata sotto di me. Avevo già detto che era un piacevole buongiorno? «Mark ha dei segreti davvero interessanti. Non mi aveva mai detto di avere una nipote così bella».

Scommettiamo?Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora