3 - Rayne

1.2K 46 9
                                    


Di tutte le cose che i giornalisti scrivevano di TJT, la sua maleducazione veniva "casualmente" ignorata. Era senza dubbio abituato ad avere il mondo ai suoi piedi, ma questo non lo autorizzava a trattare le persone come se fossero nullità al cospetto di un dio.

Dopo aver sbattuto la porta dell'Amrheins con più enfasi del necessario, facendo tintinnare i campanelli all'ingresso ben oltre il tempo che mi servì per allontanarmi dalla caffetteria, lasciai che i piedi prendessero un ritmo tutto loro, avviandomi lungo il marciapiede deserto.

Lanciai un'occhiata distratta allo schermo del cellulare, facendo ripartire la musica da dove l'avevo interrotta, mugugnando con un sospiro.

Ero in ritardo, ovviamente.

Ed ero anche senza caffè.

Scossi la testa, accelerando l'andatura e attraversando la strada. L'avvicinarsi della mia meta, un'imponente struttura di cemento e vetro che andava delineandosi nella foschia mattutina, mi riportò con i piedi per terra, ricordandomi di come avessi cose molto più importanti a cui badare.

Affrontare le mie paure, per esempio.

Sì, sapete, quella cosa che ogni persona fa quando viene giudicata adulta e matura. Peccato che il solo pensiero mi faceva stringere lo stomaco in maniera così brutale da scatenare una spiacevole nausea. Provai a ignorarla, prendendo un paio di profondi respiri e cercando disperatamente di ricordare quello che aveva cercato di inculcarmi la mia insegnante di yoga. Con risultati abbastanza scarsi, a onor del vero.

Sospirai di nuovo, il cuore che batteva troppo forte dietro le costole. Mi fermai davanti all'insegna della Waves Blue Pool, la piscina in cui venivano simulate le onde del mare. Strinsi la tracolla del borsone fino a far sbiancare le nocche.

Avevo iniziato il "percorso di riabilitazione" – così lo aveva definito Clark quando mi aveva costretta a iscrivermi, pagando di tasca propria la tessera associativa - da ormai un anno, ma nonostante tutto non ero ancora riuscita a rimettere piede in mare.

Serrai la mascella, chiudendo gli occhi e sperando che tutto diventasse inconsistente come la sabbia di cui sentivo tanto la mancanza.

Un passo alla volta.

Le porte scorrevoli si aprirono con silenziosa efficienza quando mi avvicinai, catapultandomi così nell'ampio ingresso fatto di piastrelle di diverse tonalità di blu e una cupola di acciaio e vetro azzurro, bianco e grigio, che inondava l'ambiente di luce dando la parvenza di essere sott'acqua. Oltre il grande bancone, dietro cui scorsi Mirabelle e Alice, una grande vetrata da pavimento a soffitto regalava una visuale perfetta delle piscine. Rimasi lì impalata, come se fosse la prima volta e non l'ennesimo – e forse disperato – tentativo.

«Ehi, tiburón», dal corridoio ancora nella penombra alla mia sinistra, emerse la figura alta e tonica di un ragazzo dalla carnagione olivastra e gli occhi più grandi e magnetici che mi fosse mai capitato di vedere. Il sorriso scanzonato che mi rivolse era solo il preludio di quello che mi aspettava.

Sospirai. Da quando avevo raccontato a Javier il perché fossi lì, aveva deciso di adottare con me le maniere forti. L'aveva definita una sorta di "terapia d'urto". E insieme, si era inventato quell'imbarazzante nomignolo. Mi chiamava squalo, solo detto in un'altra lingua.

«Ciao», ricambiai il saluto, ricacciando indietro il brivido che mi corse lungo la schiena e concentrandomi solo sull'aria affascinante del mio istruttore. Mi domandai per l'ennesima volta come fosse possibile, per un qualsiasi essere umano, essere svegli e sexy a quell'ora improponibile del mattino. Per me era impossibile esserlo a qualunque ora della giornata, figuriamoci appena scesa dal letto.

Scommettiamo?Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora