Capitolo Primo

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Si diceva che l'isola fosse stata scoperta solo cent'anni prima, e che le sue città fossero state rinominate nel tempo per un'ombra oscura che aveva iniziato a ricoprire tutto il suo territorio. Chi solitamente si trasferiva lì, lo faceva per stare lontano dal caos delle metropoli e non di certo per lavoro: come si poteva sperare di aver carriera in mezzo al nulla? Certo, nonostante la sua grandezza, la città racchiudeva molte strutture di filiali importanti e abbastanza scuole, ma nessuno avrebbe mai scelto quella meta per migliorare la propria vita: a meno che non si avessero soldi a sufficienza per poter star bene ovunque. Ed era proprio grazie a quella fortuna che Monique Dupré, una vedova con una fruttuosa carriera da manager aziendale alle spalle, aveva deciso di abbandonare la chiassosa New York per trasferirsi a Shadow City in compagnia della sua unica figlia, Isabel.
A un anno dalla dipartita di suo marito Michele McKansy, la donna aveva deciso di tagliare i ponti col passato e di ricominciare da zero. Nonostante l'ottimo lavoro, che le occupava più della metà delle giornate, distraendola dalla sua vita di tutti i giorni, il dolore continuava a corroderla dall'interno e l'unica soluzione alla sua depressione fu quella di trasferirsi.
"Non vedo l'ora di rivederti, angelo mio! Vedrai che, quando ti ritroverai davanti la nostra nuova casa, mi perdonerai di averti preceduta un mese prima per sistemare tutto. Chiamami quando sei all'uscita. Mamma"
Isabel sospirò, mentre si muoveva in mezzo alla folla dell'aeroporto di Shadow City.
Sua madre aveva insistito per trasferirsi su quell'isola, ma a lei l'idea non piaceva affatto... eppure, per il suo bene, per non perderla a causa della depressione che l'aveva colpita dopo la morte di suo padre, aveva acconsentito. Ancora non poteva credere che l'anno prima tutto fosse andato a rotoli a causa di un maledetto pirata stradale. Suo padre le mancava così tanto che il cuore, anche in quel momento, al pensiero, faceva male tanto da farla sentire totalmente a pezzi.
I pensieri vennero interrotti quando, ferma davanti al nastro dei bagagli, si accorse che la valigia era bloccata, impossibilitata a raggiungerla. Scosse la testa e spalancò gli occhi azzurri, accorgendosi che la colpa fosse di una ruota mancante, persa chissà dove.
«Benvenuta, Isabel: tutto preannuncia una bellissima vita qui, già dai primi minuti» sbuffò, chinandosi sulle ginocchia per controllare che non fosse accaduto qualcosa di irreparabile.
Fece forza per issare la valigia e appoggiarla accanto a lei e, nel momento esatto in cui stava ricomponendosi, qualcosa la urtò da dietro. Finì seduta a terra, e il borsone che aveva in mano si aprì, sparpagliando buona parte del suo contenuto sul pavimento.
«Questa è una congiura!» si lamentò, massaggiandosi la schiena dolente, mentre si sbrigava ad alzarsi.
«Non so se pensare che tu sia solo sbadata, o che tu abbia i sensi di ragno pronti ad attaccare chiunque ti si presenti alle spalle» fu una voce dal tono divertito e dal timbro abbastanza maturo a rivolgerle quelle parole: quindi, aveva urtato contro qualcuno e non qualcosa!
Si fece forza e studiò lo sconosciuto che le si era fermato davanti: scarpe ginniche, jeans chiaro, camicia azzurro cielo e... sentì le gote arrossire nel preciso istante in cui i suoi occhi si posarono sul viso di quello che sembrava essere un suo coetaneo.
La figura slanciata del giovane e la carnagione pallida facevano da contorno a quel viso né infantile né adulto, i cui occhi neri come la pece sembravano risaltare, nonostante alcune ciocche di capelli corvini, sfilzati poco oltre le sue sopracciglia, li coprissero appena.
Lo vide chinarsi per raccogliere la sua borsa e le poche cose sparse sul pavimento, prima di gettarle al suo interno senza attenzione e soffermarsi su un romanzo che era scivolato fuori con le altre cose. Uno sbuffo di risata sarcastica accompagnò quanto le disse: «"Darkness: le 101 cose da sapere sulle creature della notte"», la risata fragorosa del ragazzo si fece più forte. «Che assurdità».
Isabel, ancora rossa in viso, gli strappò dalle mani il libro, aggredendolo: «Ti hanno insegnato a deridere gli sconosciuti, oppure la tua è solo una stupida tattica da ladruncolo?». Nervosa e su di giri, si voltò per rimettersi la borsa chiusa sulle spalle e, afferrata anche la valigia fucsia, dirigersi verso l'uscita più vicina: ruota rotta o meno, si sarebbe allontanata in fretta da lì.
«Bisogno di una mano?» la voce beffarda dietro di lei la spinse a tornare composta con fare fiero. Determinata a non voler mostrare inefficienza senza l'aiuto di qualcuno, continuò a camminare, imperterrita. «Ce la faccio da sola, grazie» mosse qualche passo, per poi superarlo e sperare che non le rivolgesse una parola di più.
Bell'inizio per la sua nuova vita, davvero.

Non le ci volle molto a riconoscere la Toyota di sua madre, parcheggiata poco distante dall'ingresso dell'aeroporto: a che ora si era avviata per trovare posto così vicino? Le venne da sorridere al pensiero che finalmente l'avrebbe rivista e il nervosismo di poco prima venne subito spazzato via.
«Isabel!» la voce allegra di Monique le illuminò quella giornata grigia come il cielo di Shadow City.
«Mamma!» corse ad abbracciarla immediatamente, dopo aver lasciato in un gesto spontaneo che le valigie cadessero a terra.
Da quanto tempo non sentiva il suo profumo? Le era mancata talmente tanto da apprezzare ancor di più del solito le belle e confortevoli braccia della propria madre: non importava che età avesse, ormai, avevano sempre il potere di calmare qualsiasi nervo teso per un qualche problema. «Hai fatto buon viaggio?» Monique rise per la reazione della figlia, dandole un bacio sulla fronte prima di farle cenno di andare a prendere una delle due valigie. «Oh, questa si è rotta?».
«Non ne parliamo. Il viaggio è andato bene, ma gli imprevisti devono sempre capitare» sbuffò, andando ad afferrare lei stessa quella danneggiata.
Monique Dupré era una donna ancora giovane, con i fluenti capelli nocciola acconciati in un carré e gli occhi verdi sempre vispi. Molti dicevano che Isabel avesse preso i colori di suo padre, ma che avesse anche rubato il volto di sua madre.
«Proprio ieri hanno portato la tua macchina, sai? Così potrai raggiungere il college con quella. Mi sono assicurata di trovare una casa abbastanza vicina, così non ti sarà di peso non avere una stanza nei dormitori» sistemate le valigie nel cofano ben ampio, chiuso poi col pulsante automatico, Monique fece cenno a sua figlia di salire in auto.
Isabel aveva una Smart a cinque porte, bianca col tettuccio nero. Quando i suoi genitori decisero di regalarle una macchina come premio per la patente presa, aveva scelto qualcosa di comodo e poco ingombrante – poco tipico degli americani, ma che richiamava l'amata Italia di suo padre –. Era il suo piccolo gioiellino.
Con poco più di cinquantamila abitanti, e sita nel South Carolina, Shadow City vantava una grande città nella zona sud e sei province dallo stesso nome lugubre: Morke e Trube nella zona ovest, Duister e Zweem a nord e Schim e Nuance ad est.
L'aeroporto si trovava nella zona est dell'isola, ma non ci volle molto per arrivare alla loro destinazione.
Nonostante fosse un luogo sperduto in mezzo all'oceano, l'isola d'ombra – come alcuni la soprannominavano – comprendeva zone di bell'aspetto che facevano quasi credere ci si trovasse in una meta ricca di cose da vedere. Peccato che non fosse di forte interesse turistico.
Attraversato un viale alberato e apparentemente tranquillo, pieno di ville della stessa forma e tinta di colore, arrivarono al numero civico 707, dove si trovava quella che sarebbe stata la loro nuova abitazione. Quando la Toyota attraversò il cancello automatico e andò a parcheggiarsi nello spazio apposito, dove già la Smart faceva da sovrana, Isabel poté notare una boscaglia più fitta al lato della strada, dove si trovavano casa sua e quella dei loro vicini. Quando scese dalla macchina, per un attimo rimase incantata dallo splendido villino, dentro il quale, da quel giorno in poi, avrebbero condiviso gioie e dolori, chissà per quanti anni.
Perché la vita era così, no? Momenti di tristezza e di felicità; anche se di recente erano state più le sofferenze che altro, ma lei sperava di non viverne più nessuna come quella rappresentata dalla perdita di suo padre.
Composta da due piani e del color rosa confetto e panna, l'entrata dell'abitazione era un bellissimo arco decorato, sui quali scalini – che conducevano alla porta d'ingresso – vi erano dei pregiati vasi greci, con all'interno fiori di ceramica di vari tipi. Le finestre erano composte da vetrate senza persiane, ricoperte solo dalle tendine che si intravedevano dall'esterno.
La ragazza, vinta dalla curiosità, corse a dare un'occhiata nel retro e, superata una staccionata, si ritrovò dinanzi un bellissimo giardino ben curato, con al centro una grande piscina da interno. Monique aveva fatto di nuovo le cose in grande.
Tornò indietro e corse ad abbracciarla: «Mamma, questa casa è meravigliosa! Ma penso tu abbia speso nuovamente troppo».
La donna rise, accarezzando i capelli della figlia: avrebbe fatto di tutto pur di vederla felice, così come anche suo marito, prima che le lasciasse sole.
«Possiamo permettercelo. Sono riuscita ad affittare anche quegli appartamenti di famiglia che io e tuo padre avevamo fatto ristrutturare, quindi, con la vendita della vecchia casa e questa nuova entrata, non avremo problema alcuno».
«Non sarebbe meglio risparmiare? Cioè, solo perché possiamo permettercelo, non vuol dire che dobbiamo sprecare soldi».
«Sei sempre stata coscienziosa, amore mio, ma lascia che a queste cose ci pensi tua madre. Piuttosto, perché non vai a vedere com'è il resto della casa? Delle valigie me ne occupo io, dai» fece tintinnare una copia delle chiavi dinanzi agli occhi di Isabel: nel ciondolo a forma di cuore vi era una foto che ritraeva loro tre, durante la breve vacanza fatta con suo padre l'anno prima che morisse. Gli occhi le divennero inevitabilmente lucidi, mentre sorrideva e decideva di lasciar perdere e afferrarle con una risatina che cercava di nascondere quel dolore così frastornante.
«Manca anche a me» le disse, conoscendo bene quei pensieri uguali ai suoi e le sfiorò il viso con dolcezza. «Ma so che lui adesso è felice per noi».
Come già immaginava, l'interno della casa non aveva nulla da invidiare all'esterno: le pareti color pesca e i mobili stile vittoriano la rendevano ancora più bella di quella dove vivevano prima.
Diede un'occhiata veloce a tutte le stanze, esplorando per primo il piano inferiore: c'erano uno spazio ampio per l'ingresso, una cucina immensa con mobili dello stesso stile, ma fornelli e tavolo moderni; un bagno di servizio con doccia e un secondo con vasca idromassaggio, e infine uno sgabuzzino ampio accanto alla porta che conduceva alla cantina e al garage.
Ogni stanza aveva un citofono e un cordless per poter comunicare in ogni zona della casa. Stessa cosa valeva per il piano superiore, dove si trovavano anche una camera per gli ospiti e uno studio arredato a mini-biblioteca per tutti i suoi amati libri, altri due bagni similari a quelli del piano inferiore, la camera di sua madre e la sua.
Al centro del corridoio, un bottone permetteva di aprire la botola sul soffitto, che lasciava scendere la scala per raggiungere la soffitta. Ma la sua stanza era arredata in un modo ancora più dettagliato: le pareti rosa, come piacevano a lei, i mobili vittoriani con un grande armadio con specchi sulle ante, e una libreria che prendeva buona parte della parete. Il letto a baldacchino faceva da sovrano, e di fronte a esso vi era una scrivania con specchio, che nascondeva un cassetto per il pc portatile e altri per le sue cose già sistemate. Sulla scrivania, poi, c'erano un piccolo router, un cordless e, attaccato alla parete, un video-citofono.
Si chiuse la porta alle spalle, prima di avvicinarsi allo specchio dell'armadio e ravvivarsi i lunghi e folti capelli castani: gli occhi azzurri erano più luminosi del solito, forse ciò era dovuto alla serenità che stava nuovamente provando dopo tanto tempo.
«Sì, forse andrà davvero tutto per il meglio».

Le poche settimane che la separavano dall'inizio dei corsi passarono in un lampo.
Quella mattina non c'era il bel tempo, che aveva accompagnato la cittadina per quasi tutte le giornate precedenti: al posto del sole, dei nuvoloni grigi ricoprivano il cielo, sebbene il meteo non portasse pioggia. Isabel sospirò, chiudendo le tende della finestra, prima di avvicinarsi all'armadio per estrarne un jeans molto semplice e una maglia giallo chiaro, per illuminare un po' quel tempo senza sole.
«Perché mi sembra un bruttissimo segno?» borbottò, prima di cacciare un ennesimo sospiro. Dopo una leggera colazione a base di cereali, salutò sua madre pronta per il lavoro e uscì di casa. Il tragitto verso il college fu migliore di quanto pensasse e, in verità, anche l'entrata in scena fra la folla che si divideva a destra e a manca: nessun occhio puntato addosso, nessuno che la squadrava particolarmente dalla testa ai piedi per cercare di capire chi fosse il volto nuovo... niente di niente. Che non fosse raro che si trasferisse gente nuova su quell'isola? Scosse la testa, pensando che in realtà quel giorno ci sarebbe stata solo la cerimonia di benvenuto e che, quindi, erano un po' tutti nuovi.
Il college distava poco dal suo quartiere, praticamente era alla fine del boschetto vicino casa sua, e da quel poco che poteva iniziare a vedere sembrava abbastanza curato, nonostante sugli edifici vi fossero i chiari segni del tempo e dell'aria di mare che corrodeva, sospinta dal vento.
Era un edificio di sette piani a comporre le facoltà di biologia e lettere, mentre un altro palazzo, identico, ma più basso, includeva le facoltà di giurisprudenza ed economia e commercio.
Si avviò, ancor più agitata, senza un perché, per i corridoi affollati da tutti quei ragazzi emozionati, forse quanto lei, per quello che sarebbe stato il suo ultimo gradino da studentessa, prima di immergersi nel frenetico mondo del lavoro.
Dopo la laurea, Isabel avrebbe voluto fare la nutrizionista, quindi aveva deciso di frequentare la facoltà di biologia: sicuramente sarebbe stata una strada dura, con molto studio da fare, ma ne sarebbe valsa la pena. Sempre se non avesse deciso di sfruttare la sua laurea per fare altro: in fondo, l'essere umano cambiava idea quasi ogni minuto.
Avendo già la posizione dell'auditorium, dove si sarebbe svolta la cerimonia di benvenuto, per lei non fu complicato arrivare a destinazione. Prima di entrare, appoggiò una mano sulla maniglia e sospirò, abbassandola l'attimo dopo. Il vociferare regnava sovrano, dato che non avevano ancora iniziato: il piano prevedeva che alle undici il rettore, insieme ai rappresentanti del consiglio universitario, desse il benvenuto ai nuovi studenti, e alle undici e mezza, a cura dell'ufficio orientamento e tutorato, ci sarebbe stato l'incontro "SOS Matricola", dove avrebbero scoperto i dettagli e le informazioni sull'organizzazione dell'anno accademico.
Rossa come un peperone, strinse la borsa sulla spalla e mosse qualche passo in avanti, mentre alcuni bisbigli iniziavano ad arrivare alle sue orecchie sottoforma di parole incomprensibili e ciò la costrinse a voltarsi per capire cosa stesse accadendo. Le voci si acquietarono quando, dietro di lei, fece il suo ingresso il ragazzo dell'aeroporto.
«Che coincidenza ritrovarci anche qui!».
Per un breve attimo, Isabel pensò che la giornata si fosse improvvisamente trasformata in un qualcosa di spiacevole.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Apr 11, 2023 ⏰

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