6 - Rayne

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«Allora, vecchia volpe che non sei altro. Emily sostiene che qualche giorno fa hai fatto un massaggio a TJ!», Clark poggiò il mento sul palmo della mano, guardandomi con i suoi occhi scuri e pericolosamente indagatori. «Perché non ci hai detto niente?». Beth - la mia migliore amica - squittì e Adam rimase in attesa di una mia risposta come un giocatore di fronte all'estrazione dei numeri della lotteria.

«Perché non c'è niente da dire. È il mio lavoro, ricordi?», risposi sulla difensiva.

«Non fare la santarellina con noi, conosciamo ogni tuo torbido segreto», il mio insopportabile amico mi diede di gomito, facendomi ondeggiare sullo sgabello. «Avanti, raccontaci tutto».

«Clark, ho fatto un massaggio alla cervicale. Non capisco cosa ci sia da raccontare».

«Allora come mai sei diventata tutta rossa?», mi canzonò Beth, sventolandomi davanti la bustina del ketchup per sottolineare la similitudine.

«Siete tremendi», mi portai le mani al volto, in imbarazzo. «E va bene. Potrebbe aver avuto una reazione al massaggio», confessai, mimando delle virgolette. Cos'avevo fatto di male per avere degli amici così pettegoli? Beth smise addirittura di mangiare le patatine, gli altri due invece mi spronarono a continuare. «Decisamente notevole», dissi mentre diventavo di sicuro dello stesso colore dei capelli. «Mi consolerò pensando che non lo sappia usare». Scoppiarono tutti e tre a ridere, contagiandomi con la loro ilarità, poi la nostra concentrazione tornò sulla partita e gli hamburger strabordanti di cheddar.

Venivamo al Clarence's per vedere l'NBA da che ne avevo memoria.

Avevo mentito. E non solo a voi. Io amavo il basket.

Il Clarence's era il pub della famiglia di Clark – ora gestito da Vincent, suo fratello - e ci avevamo passato tutta l'adolescenza. Era uno di quei luoghi che per qualche strana ragione era riuscito a diventare così familiare da farci sentire a casa, nonostante non avesse niente di meglio rispetto al milione di locali che Boston poteva offrire. Stavamo bene, punto. Ci sarei potuta andare anche in pigiama e nessuno avrebbe avuto niente da ridire.

Non era propriamente in centro, ma a noi piaceva perché la gente che lo frequentava non faceva parte dell'élite che invece riempiva i club più esclusivi di Back Bay. Lo avevo sempre definito molto democratico, perché era impossibile sentirsi fuori posto tra i divani di pelle consumata e gli alti sgabelli foderati di velluto verde.

«Grazie al cielo è solo un'amichevole, stanno facendo davvero pietà», commentai con un sospiro mentre l'arbitro fischiava il termine del secondo quarto. Eravamo ormai a fine agosto e l'inizio della stagione si stava pericolosamente avvicinando. Dove pensavano di andare i Lakers, se continuavano a giocare in quel modo?

Sobbalzai quando Clark batté all'improvviso il pugno sul tavolo, l'espressione trionfante. «Guardate chi c'è là fuori!», indicò il marciapiede davanti al locale, dove un TJ semi nascosto dal cappellino dei Celtics stava camminando con le mani affondate nelle tasche dei jeans. Aveva tutta l'aria di star aspettando qualcuno.

«Smettetela di fissarlo così, altrimenti se ne accorgerà», implorai in tono lamentoso. Mi accasciai sul tavolo, cercando di coprirmi come meglio potevo e strattonando la manica di Clark perché la finisse di cercare di attirare la sua attenzione. I giornali continuavano a riproporre quelle stupide foto di me e lui, e io non sapevo più come fare per venirne fuori. Uscivo così tardi dalla palestra che il più delle volte arrivavo a casa e crollavo addormentata ancora vestita. Non sarei sopravvissuta a una stagione intera.

Fissavo gli appuntamenti con Thortone solo quando nessuno dei miei colleghi era in grado di coprirmi; l'ultima cosa che volevo era un altro scandalo o una nuova ondata di pettegolezzi che non sapevo gestire. Odiavo essere al centro dell'attenzione.

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