42 - Conseguenze (II)

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Gemelli
"Ne vale davvero la pena,
quando il dolore è il prezzo del piacere?"

Il rumore della porta sbattuta alle nostre spalle mi fece sobbalzare.

Christian mi aveva trascinata via da quel bancone come se fossi un'inutile bambola di pezza e, sempre come se fossi un dannato oggetto, mi aveva spinto nello sgabuzzino tra i due bagni chiudendo a chiave la porta dietro di sé.

«Si può sapere cosa–».

Le sue labbra mi ammutolirono all'istante.

Si spinsero sulle mie in un bacio disperato che mi fece tremare il cuore e le ginocchia. Le cercarono, le tirarono con un'urgenza tale che i miei battiti s'impennarono all'istante, mentre mi spingeva contro il muro freddo di quello sgabuzzino.

Era successo tutto troppo in fretta. Mi sentivo paralizzata nel mio corpo, in quelle emozioni più forti di me, in quel bacio che avevo sognato per troppo tempo. Ma... No, non lo volevo così.

Mi staccai di scatto, spintonandolo per allontanarlo. «Si può sapere che problemi hai?».

Invece di rispondere, Christian fece di nuovo un passo verso di me e quando il suo volto si abbassò sul mio, stampai il palmo della mano contro la sua guancia.

«Non azzardarti» sibilai.

Per un istante nessuno si mosse. La mia mano era ancora ferma a mezz'aria, rossa e bruciante; gli occhi sgranati di Christian che la fissavano in tralice.

Impiegai diversi secondi per rendermi conto che avevo appena tirato una sberla a Christian Case. Non che non se la fosse meritata, sia chiaro, mi stava baciando come se niente fosse dopo settimane in cui a malapena mi aveva rivolto la parola. La prontezza della mia reazione, però, mi aveva lasciata senza parole.

Anche Christian sembrava scioccato quanto me. Era come se si fosse appena svegliato da un sonno profondo e si fosse ritrovato lì. Guardò la mia mano, stretta in un pugno che adesso avevo portato al petto, e poi la sua che ancora tremava per l'adrenalina.

Solo in quel momento mi accorsi della sua espressione spiritata. Era bianco come il latte, così tirato, così perso, che fui io a cambiare le carte in tavola. La rabbia colò a picco, la preoccupazione s'impennò. Feci un passo verso di lui. «Christian» lo richiamai, «cos'è successo?».

Ma lui continuava a rimanere zitto. Fermo, di fronte a me, mi fissava senza dire una parola.

«Christian» ripetei sottovoce. Mi stava spaventando a morte, non perché pensassi che mi avrebbe fatto del male. Dio, ero la prima che in un'altra situazione avrebbe chiesto, quasi implorato, quel bacio. Mi stavano spaventando i suoi occhi, così distanti, così irreparabilmente vuoti che sollevai la mano una seconda volta, non per allontanarlo ma solo per toccarlo.

Quando le mie dita tracciarono il profilo della sua guancia, la sua pelle fredda mi fece trasalire. Era gelido. «Stai bene?».

In tutta risposta, le sue mani coprirono le mie. Lo fecero in un modo disperato e così bisognoso, da farmi venire le lacrime agli occhi. Cosa diavolo stava succedendo?

Se c'era una cosa che avevo imparato con lui, era che più insistevo per farlo parlare più lo allontanavo. Per quello non dissi una parola, nonostante sentissi il cuore battere al doppio della velocità. Mi limitai ad accarezzare piano la sua pelle, fregandomene del tempo che passava in quello stanzino. Neanche lo percepivo, neanche riuscivo a ricordarmi del resto del mondo, quando stavo con lui.

Pian piano, sentii le sue braccia tese rilassarsi e un lungo sospiro lasciò le sue labbra. «Perdo la testa» mormorò facendo un passo in avanti. Eravamo di nuovo troppo vicini, ma non mi sarei lamentata questa volta. Lasciai andare il suo viso, ma solo perché adesso erano le sue mani a essersi posate su di me. Si erano intrufolate nei miei capelli, proprio alla base del collo, dove brividi caldi tracciavano nuove cicatrici di cui mi sarei preoccupata l'indomani. «Perdo sempre la testa quando ti vedo con lui».

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