Prologo.

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«"[...] E se tu mai nel dolce mondo regge,

dimmi: perché quel popolo è sì empio

incontr'a'miei in ciascuna sua legge?"


Ond'io a lui: "Lo strazio e 'l grande scempio

che fece l'Arbia colorata di rosso,

tal orazion fa far nel nostro tempo."»


Dante Alighieri

Canto X, Inferno, Divina Commedia






Pianura senese, 4 settembre 1260.



Jacopo de' Pazzi richiuse le sue dita di ferro intorno all'asta della bandiera.

Non avrebbe mai desiderato essere altrove, in quel momento. Era alla testa dell'armata, davanti a centinaia e centinaia di fiorentini pronti a lanciarsi in battaglia al suono delle sue grida, ad un cenno della sua mano. Benché lui non fosse il comandante di quell'esercito.

«Portastendardo!»

Jacopo si voltò in un modo così repentino che il suo cavallo si lasciò sfuggire un nitrito di sorpresa.

Bocca degli Abati gli stava venendo incontro a trotto sostenuto. La splendida armatura con lo stemma del cervo risplendeva sotto i raggi del sole. Già: persino il sole pareva innaturale, quel giorno; invisibile dietro una coltre di nuvole bianche, eppure rovente come l'inferno. E pensare che erano ormai gli inizi di settembre.

Jacopo de' Pazzi chinò prontamente la testa. «Mio capitano.»

«Su, su» replicò il cavaliere. «Non abbassatevi a livelli che non sono vostri, Jacopo.» Bocca degli Abati gli scoccò un'occhiata indecifrabile. «L'unico che dovrà inchinarsi oggi si trova dall'altra parte del fiume, e penso che voi conosciate bene il suo nome.»

Jacopo gettò un rapido sguardo al di là della striscia d'acqua che sembrava aver tagliato a metà la pianura per mero dispetto. Intravide le schiere nemiche con il cuore che già iniziava a battere il ritmo di guerra: gli stendardi dell'aquila imperiale, il leone dorato in campo blu della cavalleria senese... I fanti tedeschi e i balestrieri pisani: un'accozzaglia di mercenari e disertori di ogni lingua e provenienza.

"La feccia della feccia", pensò Jacopo, stritolando le redini di cuoio. "Si credono invincibili solamente perché hanno il figlio dell'aquila fra le loro file?"

Ma, al posto di Manfredi di Svevia, l'unico cavaliere che Jacopo de' Pazzi fu in grado di riconoscere a quella distanza, per ironia della sorte, altro non era che un suo vecchio concittadino.

«Farinata degli Uberti...» mormorò, a voce bassissima, quasi con un ringhio, guardandolo spronare il suo robusto cavallo nero oltre le acque dell'Arbia, soltanto per provocarli all'attacco. "Sì, quel traditore!" Lo avrebbero fatto strisciare per terra come un verme, una volta terminata la battaglia. Jacopo ne era sicuro.

«Sarà la nostra vendetta» disse Bocca degli Abati, come se avesse potuto leggergli nel pensiero. «La nostra resa dei conti.»

Poi, sollevatosi sulla sella per avere su di sé l'attenzione dell'intero esercito fiorentino, gridò: «Prima fila, preparatevi alla carica!!»

I tamburi cominciarono a risuonare terribili e potenti in tutta l'armata. In quell'istante erano davvero un corpo solo, un gigantesco cavaliere pronto ad assalire e a disarcionare qualsiasi nemico si fosse parato loro davanti.

Guglielmo Donati, che comandava l'ala sinistra della cavalleria, ordinò ai suoi fantaccini di innalzare le insegne. Avvolto nel lungo mantello bianco, s'apprestava a scendere verso l'Arbia per far valere la legge di Firenze con la punta della sua spada. Era lui che, due anni prima, aveva proposto a gran voce l'esilio degli Uberti e di decine di altre famiglie di parte ghibellina dalla città; lui, il rampollo di uno dei casati più nobili dell'intera Firenze.

Dal lato opposto del campo, Jacopino Rangoni di Modena si calcò in testa il pesante elmo istoriato e dipinto di giallo. In quanto alleato di Bocca degli Abati, aveva il dovere di attendere il segnale del capitano fiorentino prima di iniziare la battaglia, ma non erano pochi quelli che temevano in una sua inosservanza. La smania di sangue gli si sarebbe potuta leggere negli occhi.

"Prima cominceremo, prima porremo fine a questa farsa", pensò Jacopo de' Pazzi, allontanando lo sguardo dal cavaliere modenese con un brivido d'ansietà.

Il portastendardo ribolliva per guidare la carica. Le dita della mano destra – quella che reggeva il vessillo – erano talmente strette intorno all'asta da aver quasi perso la sensibilità. Lui intanto si immaginava. Fantasticava su ciò che avrebbe fatto tra pochi secondi, quando Bocca degli Abati avrebbe ordinato la carica. Si sarebbe lanciato al galoppo in direzione del fiume, sventolando il giglio vermiglio della sua città... Nessuno avrebbe mai potuto dimenticarlo; il suo nome sarebbe stato sulle labbra di tutti. Perfino su quelle di Farinata.

Jacopo vide i cavalieri avanzare alle sue spalle, le lame in pugno e le celate abbassate sul viso.

Il capitano stava fissando l'orizzonte. Sembrava perso, distante. Isolato dai suoi stessi soldati, dai suoi stessi fratelli.

I ghibellini avevano iniziato ad intonare le grida di guerra; Jacopo li sentiva battere le lance sui bordi degli scudi, pronti a farsi ammazzare per il loro comandante e il loro imperatore. Ma ancora non parevano aver l'intenzione di attaccare.

Jacopo si accostò a Bocca degli Abati, mentre la bandiera di Firenze gli frusciava sugli spallacci dell'armatura. Il giglio scarlatto dipinto sulla candida stoffa del gonfalone sembrò benedirlo.

«Cosa stanno aspettando?» domandò, senza distogliere lo sguardo dal capitano.

Bocca aveva messo mano alla spada. Teneva le dita chiuse intorno all'elsa, nell'attesa di estrarre la lama dal pesante fodero di pelle.

"Quando la estrarrà, allora sarà il momento dell'attacco", si disse Jacopo. In ogni caso però il capitano pareva non aver ascoltato la domanda.

«Cosa stanno aspettando?» ripeté Jacopo.

Fu in quel momento che Bocca sfilò la spada dalla guaina. Il cavallo di Jacopo ebbe un fremito, come se avesse intuito – se solo avesse potuto parlare al suo cavaliere...

Successe tutto in meno di una manciata di secondi...

E Jacopo vide il capitano fiorentino calare la spada sulla sua mano destra.

«Questo!!» gridò Bocca degli Abati.

Jacopo de' Pazzi urlò a sua volta. Un dolore lancinante parve azzannargli il polso, mentre la mano guantata veniva portata via insieme alla sacra bandiera del giglio. Credette di essere sul punto di scivolare dalla sella... Il suo cavallo nitrì di nuovo, si impennò.

"Perché?", si chiese, scivolando nel buio. "Perché?"

L'ultima cosa che vide fu il volto distorto di Bocca degli Abati, una maschera senza espressione; e il giglio vermiglio tinto del suo stesso sangue... Così rosso, così disgustosamente rosso...

Il giglio lacrima sangueDove le storie prendono vita. Scoprilo ora