47 - Orizzonte (IV)

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C H R I S T I A N


La prima volta che avevo scoperto del tradimento dei miei genitori avevo otto anni e credevo di non aver capito bene cosa accadesse in quella casa. Mamma aveva un altro uomo e papà un paio di amiche speciali.

A tredici anni avevo iniziato a definire i contorni di quell'assurdità: giocavamo alla famiglia felice mentre i miei genitori non c'erano mai e io dovevo mentire in continuazione ai miei fratelli.

Lo avevo fatto, le prime volte. Lo avevo fatto per Alison e Alex, principalmente, perché era più facile fargli credere che i nostri genitori fossero delle specie di supereroi dell'informatica, piuttosto che raccontare di tutte le loro relazioni parallele.

Poi, però, avevo iniziato a oppormi.

La mia analista dell'epoca, una cogliona di prima categoria, era stata convinta dai miei genitori a manipolarmi affinché seguissi ubbidiente i loro ordini. Non c'era riuscita. Dopo mesi di botta e risposta aveva concluso che avessi sperimentato una sorta di lutto: nel profondo ero convinto che i miei genitori fossero morti, mentre io ero bloccato al secondo stadio della perdita, quello della rabbia.

Era lì che mi trovavo anche in quel momento: incastrato tra il senso di colpa per essere un fratello inutile e la rabbia per tutto il dolore che quella donna ci stava infliggendo ancora.

I ricordi delle ultime liti con lei scoppiarono nella mia mente come petardi: l'obbligo di mentire ad Alex e Alison, la recita della famiglia perfetta per impressionare i soci che mio padre cercava di accaparrarsi, e poi le imposizioni, le cene di facciata, le domande che non erano mai per me perché a mia madre interessava solo del suo prezioso secondogenito, e infine quella volta che mi avevano spedito a fare il test dell'HCM con la tata perché loro non avevano tempo da perdere. Test che mi ero rifiutato di fare, ma non potevano saperlo perché non glie n'era più fregato un cazzo di me.

Mi fermai accanto al letto, infilando le mani dietro al collo per la paura di spaccare qualcosa.

A me non fregava un cazzo.

Io non sentivo nulla.

Alison era l'unica persona che dovevo proteggere.

Il rumore della porta che si apriva alle mie spalle scacciò quei pensieri che ripetevo come un mantra da quando Claire si era presentata alla festa. La sentii abbassarsi a recuperare qualcosa e poi la porta del bagno si chiuse di nuovo con un colpo secco.

Voltai il capo, trovando solo la lastra di vetro opaco che rifletteva la mia immagine sfocata. Adesso che era stata lei a rifugiarsi oltre quella porta, avevo voglia di annullare la distanza che io stesso avevo imposto. Mi comportavo sempre di merda con lei, ma non riuscivo a fare altrimenti. Non ero abituato alla sua insistenza, non sapevo come gestire il suo bisogno di attenzioni e il mio, di bisogno, di averla sempre attorno.

L'avrei distrutta.

L'avrei distrutta perché la mia rabbia distruggeva me in primis, e non ero abbastanza forte da combatterla.

Tirai una manata alla sedia facendola sbattere contro la scrivania. Il rumore fu così assordante che per un istante la immaginai correre fuori da quel bagno. Mi avrebbe detto che ero un coglione, io le avrei detto che era fastidiosa e insopportabile, e poi l'avrei baciata. L'avrei baciata perché in qualche modo Claire riusciva sempre a rimettere insieme i pezzi.

M'immobilizzai e tesi le orecchie, pensando che sarebbe andata proprio così. Quando però la porta rimase una solida barriera tra di noi, quella ridicola speranza mi chiuse i polmoni.

Barcollai fino al letto, ficcando le mani tra i capelli e tirando così forte da farmi male. All'inizio della terapia, mi ero chiesto più volte se quella rabbia sarebbe durata in eterno. Mi avevano detto di no, che sarebbe passata e che avrei ripreso la mia solita vita. Adesso ero sicuro che avrei dovuto farci i conti per sempre. Era la mia unica costante, anche se incasinava tutto: la scuola, il football, le relazioni. C'era una sola persona che sembrava non averne paura...

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