Capitolo 5.

120 10 0
                                    

Tic toc, tic toc, tic toc

Il continuo ticchettio dell'orologio rimbombava nella mia testa, scandendo i secondi, i minuti, le ore.
Giacevo su un letto d'ospedale, con le braccia inerti lungo i fianchi, le palpebre serrate, ma viva.
Il mio corpo esile e fragile collegato ai fili di quelle macchine vitali, ma privo di sensi.
Guardavo tutto ciò da fuori, spettatrice e causa della sofferenza altrui.
In quella stanza antisettica, il tempo si era fermato.
Si percepivano soltanto disperazione e sconforto; dopo due settimane, quel barlume di speranza stava scomparendo a poco a poco.
Mia madre sedeva su uno sgabello, accanto al mio letto. Il suo viso era spento e stanco, le occhiaie le contornavano gli occhi ed i capelli, che teneva sempre perfetti, erano ora arruffati.
Avrei voluto abbracciarla, rassicurarla, ma una forza esterna bloccava i miei arti.
Ero forse destinata a rimanere lì, immobile, testimone di questo spettacolo straziante?
Piuttosto preferivo morire.


Tic toc, tic toc, tic toc.

Ancora quell'insopportabile rumore. Si faceva sempre più vicino, pronto ad imprigionarmi nel suo vortice infinito.
In quel momento mi sentii come risucchiata, catapultata di nuovo nel mio corpo inanimato, quasi morto.
Vagavo nell'oscurità, tra i meandri più tetri della mia mente.
Non riuscivo a distinguere nulla, finché non vidi una fioca luce bianca in movimento.
L'istinto mi suggerì di seguirla, anche se questa si spostava continuamente, mettendo a dura prova la mia pazienza.
Continuavo a correre nella speranza di raggiungerla, ma la luce, cosi com'era comparsa, sparì.
Un mal di testa lancinante mi pervase, costringendomi a chiudere gli occhi.
Quando li aprii, ero in quel maledetto letto d'ospedale. Ed ero viva, debole sì, ma viva.

Non ricordo bene cosa successe subito dopo.
Grida, suoni ovattati, medici e infermieri che correvano da una parte all'altra.
***

I giorni in quell'edificio bianco immacolato trascorsero lentamente, nella monotonia che solo un ospedale sa trasmettere.
Le minestre mandate giù controvoglia sotto la supervisione dei miei genitori, le visite dei miei pochi amici, che mi rimproverano il fatto che volessi ancora sapere qualcosa su Louis.
"Quel bastardo" secondo Emily.
E in fin dei conti non aveva tutti i torti.
Nessuno sembrava intenzionato a farmi tornare lì, dove sarei stata a stretto contatto con "quel criminale" -secondo mia madre-.
Nessuno sembrava capire le ragioni che mi spingessero a riavvicinarmi a quel "ragazzo mentalmente disturbato" -secondo l'infermiera del terzo piano- e nessuno riusciva a chiamarlo per nome, a quanto pare.

Questo non bastò a fermarmi. Appena potei tornai nel luogo dove avevo rischiato di non vedere più la luce del giorno, letteralmente.
Nei giorni a seguire, cercai di rintracciare in qualche modo Louis, avevo bisogno di vederlo.
Avevo bisogno di accertarmi che lui stesse bene, perché ero fermamente convinta che il danno psicologico che le mie parole gli avevano provocato era nettamente superiore a qualsiasi livido.

Solo qualche giorno più tardi, dopo aver controllato di nascosto i registri, scoprii il luogo dove trascorreva la maggior parte del tempo: una piccola sala all'ultimo piano, dotata di grandi vetrate trasparenti.
Tra una lezione e l'altra riuscivo spesso a vederlo: era quasi sempre impegnato a svolgere qualche attività, quali dipingere, suonare il piano, fare strani giochi solitari o semplicemente dormire.
Era rasserenante vedere che stesse bene, che riuscisse a svolgere tutti quei compiti con tranquillità.

Uno di quei giorni in cui mi fermavo ad osservarlo, successe una cosa inaspettata.
Stava suonando una melodia malinconica, quando all'improvviso si fermò, voltandosi verso di me.
Distolsi lo sguardo, ancora poco pronta a rincontrare quegli occhi.

Louis parlò.
-Non sapevo che fossi tornata.- disse semplicemente.
Non risposi, non sapevo cosa dire.
-Entra.- continuò lui.
Sentivo il suo sguardo trapassarmi la pelle, come a voler vedere oltre.
Alzai la testa disorientata e feci come mi aveva detto.
Oltrepassai la soglia, avvicinandomi a lui con insicurezza.
-Non ti farò nulla.- ammise con tono dolce, come quando ci si rivolge ad una bambina piccola ed indifesa.
In realtà mi sentivo proprio così.
Mi sedetti accanto a lui, che ricominciò a suonare.
Socchiusi e gli occhi, mentre quelle note iniziarono a risuonare nella mia testa come lamenti e gemiti sofferenti.
Delle lacrime iniziarono a scorrere sul mio viso: mi sentivo sporca. Dentro e fuori.
Corsi in bagno e mi avvicinai allo specchio.
Alzai la maglia, iniziando a tastare quell'enorme livido viola che avevo sull'addome.
Socchiusi gli occhi per il dolore, mentre le lacrime continuavano a scorrere sul mio viso.

Quando riuscii a riaprire gli occhi, notai che Louis mi sta fissando.
Aveva la mascella tesa e gli occhi lucidi e stringeva i pugni con forza.
Si avvicinò a me cautamente e mi abbracciò.

Sussultai per la sorpresa: non potevo credere a tutto ciò.
Asciugò le mie lacrime e mi accarezzò i capelli con delicatezza, per poi sorridere appena.

Egli uscì dal bagno e solo qualche minuto più tardi mi resi conto dell'accaduto.
Quel gesto valeva sicuramente mille volte di più di un semplice "scusa".

Non aveva sbagliato a considerarlo "buono".
Anche Louis Tomlinson aveva un cuore.

*********************************
Hi!
Come promesso ieri, ho aggiornato.
*lanciano pomodori e verdure varie*
Non ho nulla da dire di nuovo, come sapete ringrazio sempre tutti voi che non perdete la pazienza e continuate a supportarmi (o forse sarebbe meglio dire a sopportarmi).

Vi mando tanti bacini arcobalenosi e ci vediamo al prossimo capitolo.

Ciao piccoli cuccioli di panda!

Save me.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora