51 - Collisione (I)

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C H R I S T I A N



Verità.

Quella parola mi era rimasta appiccicata addosso da quando Claire se n'era andata due giorni prima. Mi sembrava un concetto così banale dall'essere al limite del ridicolo. Ci sforzavamo tanto di capire se gli altri ci stessero prendendo in giro, che metà delle nostre energie venivano sprecate in paranoie del cazzo. Perché diavolo le cose non potevano essere semplici?

Dire la verità sempre: ecco la soluzione che proponevo. Nessuna zona d'ombra, nessuna via di fuga. Eppure, mentre osservavo le lancette dell'orologio scandire il pomeriggio in quella clinica nauseabonda, mi chiesi perché io stesso non riuscissi a seguire le mie regole.

Alison posò un gessetto e mi guardò sospettosa. Ero seduto sul bordo del suo letto da due ore e da due ore continuava a lanciarmi occhiate diffidenti. «Non dovresti essere al college, tu?» insistette.

Inspirai, cercando di sorridere. «Dovrei».

Il coach mi aspettava in campo, i miei compagni anche. Non era come al liceo dove l'intera squadra si muoveva a mio piacimento. A Boston facevo parte di un ingranaggio molto più grande di me. Un solo passo falso e sarei stato buttato fuori. Peccato che fosse inutile presentarmi agli allenamenti in quello stato.

Non riuscivo a smetterla di chiedermi dove avessi sbagliato. C'era stato un momento in cui tutto andava bene, in cui mia sorella sorrideva ancora, in cui i problemi reali non esistevano. Sapevo di aver vissuto una realtà simile, la ricordavo. Eppure, non riuscivo a capire come fossimo finiti così: Alison in una clinica, io e Alex che a malapena ci parlavamo, mio padre che era un coglione, Claire che se n'era andata.

Claire che però, a differenza di tutti gli altri, mi aveva detto la verità.

Sospirai, continuando a osservare mia sorella dipingere senza essere in grado di porle quella domanda: di chiederle quando avessi incasinato tutto. Non riuscii a farlo neppure quando mi osservò di nuovo da sopra la tela, questa volta corrucciando le labbra in quella smorfia così simile alla mia da farmi venire voglia di abbracciarla.

C'era stato un tempo, quando avevo scoperto del tradimento dei miei genitori, in cui mi ero persino chiesto se Alex e Alison fossero davvero i miei fratelli. Non avevo mai considerato la possibilità di eseguire un test genetico. Scoprire se il nostro DNA fosse simile o completamente diverso non avrebbe cambiato nulla. Con Alex condividevo la passione per il football e per i film della Marvel, con Alison la pazienza scarsissima e la capacità di ottenere sempre ciò che volevo.

Era per quello che mi trovavo lì: perché volevo delle spiegazioni dall'unica altra persona della mia famiglia abituata a fornirne solo quando lo decideva lei. Ma ad Alison volevo più bene che a me stesso, e quello era anche il motivo per cui l'avevo osservata dipingere per due giorni di fila, senza avere il coraggio di parlare. Perché quella domanda - perché non fosse corsa da me alla prima difficoltà, perché invece avesse preferito le pillole – mi stava dilaniando. Ma non quanto la possibilità di farla soffrire ancora con le mie parole.

«Senti, Chris». Alison mollò i gessetti con un gesto stizzito. Ero pronto a uno dei suoi soliti discorsi motivazionali, li faceva sempre quando eravamo solo noi due. Non stavo vivendo a pieno la vita, questa era la sua opinione professionale. Dopo aver iniziato la terapia era diventata insopportabilmente ottimista, ma era la mia sorellina e se cercare di psicanalizzarmi la rendeva felice, avrei ascoltato qualsiasi consiglio non richiesto. «Non credo che tu stia bene ultimamente».

Il nodo alla gola m'impedì di rispondere e mi limitai a sollevare le spalle.

«So per certo che la squadra sta andando bene, perché vi seguo sempre» riprese concentrata, «ti ho già visto dopo il tuo incontro con Claire, quindi, per quanto tu sia messo male, non credo che sia lei il problema...». Si voltò con quell'espressione canzonatoria che poteva aver copiato solamente dal sottoscritto. Quando mi guardò, però, le parole le morirono in bocca. «Oh» disse solo.

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