Il viaggio di ritorno durò quasi una settimana. Facemmo molte soste, soprattutto di notte e spesso lontano dai centri abitati, in rifugi sicuri conosciuti solo da Ben, dove non avremo potuto essere facilmente individuati né dai pellerossa, né dai soldati. Fu un tempo importante, per interrogare me stessa, immersa nella solitudine dei luoghi; fu un tempo prezioso per recuperare il bello e il brutto di quell'esperienza dolorosa; fu un tempo necessario per pregare di capire e interpretare quello che mi era successo e soprattutto come mi avesse cambiato.
L'incontro con Jack e Rachel fu commovente, mi abbracciarono entrambi con affetto e dalle loro lacrime capii quanto fossero stati in pena per me.
Rivedere la mia casa, constatare che tutto era lindo e ordinato (seppi che Rachel e Alice la pulivano regolarmente), pronta a riaccogliermi, mi consolò e riempì di gratitudine per le ottime persone che il buon Dio mi aveva dato come parenti e amici.
La cosa più difficile divenne rientrare nella comunità. Mi resi subito conto che coloro che mi conoscevano prima della cattura mostravano atteggiamenti differenti: alcuni mi compativano, presumendo le atrocità che avevo subito e mi trattavano con premura, quasi fastidiosa, senza aver il coraggio di chiedermi nulla, ma anzi sforzandosi di lasciar intendere che tutto era come prima; altri erano i "curiosi", quelli che volevano sapere a tutti i costi, che mi fermavano per strada per farmi domande allucinanti oltre il limite della discrezione; infine c'erano i peggiori, coloro che ritenevano che vivere con gli indiani significasse esserne contaminati e che non si potesse ritornare immacolati, quasi che fosse una specie di maledizione; di queste persone, alcune mi evitavano o comunque tendevano a cambiare strada quando li incrociavo. Il comportamento di William fu il più difficile da accettare. Capii che pensava che io avessi subito violenza da parte dei pellerossa e perciò, senza una sola parola di spiegazione, sparì, cioè non osò più farsi vedere, né avvicinarsi per chiedere mie notizie, una volta saputo del mio rilascio, nemmeno ai miei parenti. Questo mi provocò una grande delusione, non perché lo amassi (dopo i sentimenti provati per Wanapeya, tutto il resto mi sembrava insignificante), ma per la stima in cui lo tenevo, stima che con il suo atteggiamento ignobile riuscì a demolire completamente.
Pur desiderando che io raccontassi della mia esperienza, nessuno dei miei familiari mi stimolò a farlo; capivano che avevo bisogno di tempo per riabituarmi alla normalità e che forse non ci sarei nemmeno riuscita del tutto. Soprattutto Alice aveva bisogno di risposte e fu per lei in particolare che mi decisi, dopo una decina di giorni dal rientro a casa, a riferire ciò che avevo vissuto, nella speranza di aiutarla a superare il dolore cocente della perdita della sorella. Chiesi a Jack di radunare tutti gli amici e conoscenti, perché non volevo che le notizie si spargessero per "sentito dire", ma che le apprendessero direttamente dalla mia bocca e, prima che arrivasse quel momento, pregai ardentemente il buon Dio che mi concedesse le parole giuste per far "vedere" come in tutti gli eventi la sua Provvidenza infinita non mi avesse mai abbandonato.
Vennero tutti e molti: venne anche lo sceriffo William e la mia collega insegnante Dorothy, il sindaco, Alice con suo padre, Peter e molti altri. Ben ritenne opportuno non far partecipare la moglie, anche se io cercai di convincerlo altrimenti; infatti intuivo quanto la presenza di Meoquanee mi avrebbe confortato durante quel difficile racconto e inoltre desideravo far sapere a tutti che senza la mia piccola amica indiana non ce l'avrei fatta a sopravvivere.
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WANAPEYA, HO AMATO UN INDIANO
RomanceDanielle Martin si trasferisce nel selvaggio West per aiutare il cognato Jack, vedovo della sorella, che vorrebbe ricominciare una nuova vita sposando una brava ragazza ma la figlia Rachel non accetta un' altra donna al posto della madre. Nel suo nu...