"L'è proprio belin, 'sta olta. Và alto che l'è!"
"Un po' magretto, forse?"
"A mi i me piase i oci."
"Guardate cosa abbiamo qui!"
"Ooh!"
"Vardì che manego che 'l gà chì!"
"'L ne piase, 'l ne piase!"
L'anguana che pareva essere la più anziana alzava le braccia del Berto, mostrando a tutte le altre le sue membra ancora sottili, la pelle tesa e perfetta di un corpo che deve ancora iniziare a duellare con la vita. La più giovane teneva in mano un vaso, con cui seguiva quella di mezzo. Questa dipingeva il corpo liscio del ragazzo con intricati disegni, fatti di respiro di rospo e di sangue di muschio.
"Perché tu tema sempre la luce del sole" gli sussurrò minacciosa la piccola stria che reggeva l'orcio.
La dolina serpeggiava a lungo sotto la terra. C'era tanta acqua quanta aria, tanta luce quanta speranza. Perché le anguane vivono al margine della vita e della ragione, vivono appena sotto il pelo dell'acqua, dove le bestie vanno a morire e i fiumi a riposare. L'Infelice Collegio si mise a cantare parole di dolore e di temporale, scuotendo i venti e la terra. Gli uccelli vennero svegliati dal loro sonno, stormendo fra le nubi e la luna.
"Perché il dolore non schianti la tua mente" sibilò la piccola anguana mentre seguiva zelante la sua maestra.
Il Berto notò che la schiena della piccola era ancora coperta di diafana pelle color del granito, a differenza delle più vecchie del Collegio. Continuando a cantare, risalirono la dolina sotto la luce della luna, che faceva capolino in un cielo inqueto. Il Bertoldo aveva la testa pesante, le gambe gli tremavano. La pelle gli bruciava dove il mortifero unguento era stato spalmato. Nella lunga spirale che risaliva la terra, facce di pietra in lacrime gli mostravano cordoglio e teschi spolpati scherno. Le radici erano contorte a schivare un fuoco che lui ancora non poteva vedere. Perché anche le piante e le pietre temono la violenza dei comandi delle strie, che impongono loro di andare contro la volontà del Signore. Non la temeva il giovane Berto, questa violenza, dato che per tutta la sua giovane vita aveva aspettato il giorno in cui sarebbe stato portato via dalla sua casa di pietra per finire in un castello abbarbicato alle viscere della terra. Il bosco respirava affannosamente, quasi piangesse, per coprire la tremenda litania dell'Infelice Collegio. L'aria era fresca e carica di pioggia. Il Bertoldo stava nudo contro la selva, e una anguana gli appoggiò una mano sulla spalla.
"Perché tu tema per sempre la morte."
Con un osso spezzato la donna lo colpì alla schiena, quasi bucandogli il fegato, e poi ancora, per due volte, chiamando i Tre Nomi degli Abissi. Il Bertoldo non emise nulla più che un gemito. Gli avevano detto di non parlare, di non farle arrabbiare, che erano come le vette, limpide o terribili col mutare del vento. Lo fecero correre nel sottobosco, in una pioggia di raggi di luna, fin sotto un grande abete bianco, saggio e rammaricato nel chiarore notturno.
"Ahi, Bambino Gesù, dammi la forza."
Fra le frasche del sottobosco riuscì a scorgere movimenti rapidi, dorsi argentati.
"Ahi!"
Attorno al suo corpo, soffi minacciosi. Un morso affilato gli portò via un pezzo di calcagno, facendolo cadere a terra. Esseri pelosi gli si avventarono addosso, mordendolo e bevendo il suo sangue, perché potesse essere sostituito dalla terra e dalla luna. Adesso urlava, il giovane Bertoldo. La tintura sulla sua pelle, resa brillante dalla luce della luna, si infilava nelle ferite, portandosi dietro tutto quello che toccava: erba, pietre, insetti e rugiada notturna. Le anguane dell'Infelice Collegio osservavano compiaciute, cantando sulle grida nel povero ragazzo, mentre da lontano risuonava a morto la campana di don Ruggero.
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Nel cuore e nella pietra
Fantasy"Sta nascendo, sta nascendo!" Alla cava, il grande Berto posò la mazza e si tolse il fazzoletto dagli occhi, scuotendosi di dosso le schegge e la polvere del granito con le manacce callose. "Sta nascendo?" chiese agitato il gigantesco tagliapietre. ...