First meeting, first kiss.

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«Fare tardi il primo giorno! Questo ci pone a prescindere in basso alla gerarchia sociale»
«Ryan, parlare in questo modo alquanto altolocato ci pone in basso ad ogni tipo di gerarchia; e comunque ho finito!" dissi abbottonando i jeans.
Uscito dal bagno trovai Ryan seduto sul mio letto intento a scrivere su un quadernetto blu. Quando mi vide lo chiuse di colpo. Vista la sua reazione non chiesi nulla. «Andiamo?» Lui mi rispose saltando giù e seguendomi al piano inferiore.
«State attenti piccoli» disse mia madre stampandoci, in fronte, un bacio ciascuno. «Ciao, ma'» dissi un po' infastidito. Era davvero una madre troppo apprensiva, ma a Ryan poco importava.
«Lo faremo signora Urie, una buona giornata» le rispose con un sorriso stampato in volto. Uscii senza dargli troppa attenzione.

«È inutile!» disse tirandomi per un braccio. «Di che stai parlando?» «Della scuola» non riuscivo a credere alle mie orecchie, lo studente modello Ryan Ross, aveva appena rinnegato il suo amore smodato per lo studio. La presi come una battuta
«Si, ed io sono una drag queen» Per un attimo mi guardò stranito.
«Ryan, sto scherzando».
«Oh, capisco. Però devo dirtelo. Ho sprecato tanti anni a studiare per la media più alta, notti insonni per finire di scrivere alcuni saggi, tanto lavoro che adesso mi sembra così inutile. Nemmeno il college mi sembra la strada giusta.» Ascoltai ogni singola parola con estrema attenzione e ciascuna mi sembrò provenire da un Ryan diverso, lontano anni luce da quello con cui avevo parlato pochi istanti prima. Sembrava stanco e disincantato.
«C'è una cosa che non ti ho detto» I suoi occhi si illuminarono.
«Ho messo su una band» continuò sorridendo «con Brent e Spencer» Scossi il capo in segno di assenso riuscendo a collegare a quei nomi dei volti.
«Tu suoni la chitarra, no?» Annuii nuovamente, questa volta sentii la sua adrenalina contagiarmi e sorrisi ampiamente.
«Mi stai chiedendo di unirmi alla band?»
«Ti sto chiedendo di provarci, gli altri dovranno essere d'accordo» mi disse lasciandomi il braccio.
«Dopo scuola qui» disse strappando un foglio dal quadernetto e scrivendogli sopra un' indirizzo. «Ci vediamo di pomeriggio!» Detto questo mi lasciò letteralmente in mezzo alla strada. Così, piegato il foglio in quattro lo riposi accuratamente nella tasca dei jeans e mi incamminai lentamente verso scuola.
Inutile dire che arrivai con un enorme ritardo e che la signora Jackson, insegnante di matematica anziana e perennemente irritata, mi chiamò alla lavagna giusto per umiliarmi di fronte a tutti, ma le risposi che poco m'importava di lei e della sua materia, ottenendo così un' ora di punizione pomeridiana. La cosa, ovviamente, mi fece agitare ancora di più e finii in presidenza.
«Signorino...?»
«Brendon. Brendon Urie» era incredibile come, nonostante passassi più tempo in presidenza che in aula, il signor McCaughen si dimenticasse di me.
«Urie, già. Urie.» Disse dandosi dei colpetti in fronte come per imprimere nella mente il mio cognome.
«Cosa è successo?»
«La signora Jackson vuole darmi un ora di punizione, il fatto e che sarei disposto a farla ma non oggi» ammisi schietto.
«È sempre la Jackson che me li manda» disse fra sé. Io risi, anche se per ben altri motivi nemmeno lui la sopportava. «E per quale ragione non puoi rimandare i tuoi impegni?»
«Si tratta di un colloquio di lavoro» dissi frettolosamente.
«Se si tratta di questo... Va bene signorino, emm....»
«Urie»
«Si, Urie. Domani però, anziché un ora saranno due.» sospirò.
Sbuffai un po' trovando il raddoppiamento della punizione ingiusto, ma non replicai. «Grazie signore, le sono grato.» Così dicendo tornai in classe, dove ad attendermi c'era solo un'ultima ora di prigionia prima della tanto agognata libertà. Corsi a casa tremante, afferrai la chitarra riposta accuratamente nella custodia e l'accordai. Poi infilai alcuni spartiti e annessi plettri nella tasca anteriore della custodia nera e mi catapultai fuori senza stare a sentire le infinite domande di mia madre che mi seguirono fino all'uscio di casa. Così controllai l'indirizzo, giusto per non sbagliare e notai che sul foglio si notavano i solchi di qualcosa di scritto, ma a quello avrei pensato dopo.
Dopo una mezz'oretta nella quale corsi a perdifiato, arrivai a destinazione. Una modesta casa dalle mura grigie e dal tetto blu padroneggiava sugli alberi dalle foglie rosse del giardino. Lessi il cognome sul campanello "Smith", ma questo non mi fece capire di chi fosse quella casa; non conoscevo i cognomi di quei ragazzi. Suonai il campanello e fortunatamente ad aprirmi fu Ryan.
«Sono in ritardo?» Chiesi con un un filo di voce.
«No» mi sorrise «a dire il vero stiamo aspettando Brent».
Riuscii a rilassarmi leggermente quando conobbi Spencer. «Spencer, Brendon. Brendon, Spencer.» Ci presentò Ryan. Avevo già visto Spencer a scuola. Era un ragazzetto paffutello, che non parlava molto anzi il più delle volte si limitava a guardare in silenzio con i suoi occhi azzurri; quella volta però mi sorrise.
«Fa' come se fossi a casa tua» mi disse sedendosi sul logoro divanetto marrone che sicuramente avrà visto giorni migliori. Posai la chitarra che ancora avevo in spalla e mi sedetti sul lato opposto rispetto a Spencer, quando il campanello suonò.
«Vado io» disse poi scattando in piedi.
«Bren, tranquillo.» Ryan mi diede una pacca sulla gamba.
«Si, si certo» sbottai più nervoso di prima.
«Tu devi essere Brendon, piacere.» disse il ragazzo dai capelli scuri e da un sorriso nervoso. Annuii stringendogli la mano.
«Ryan, non fa altro che parlare di te» Spencer dal divano sollevò le sopracciglia.
«Dice che se potesse ti sposerebbe» ridacchiò.
«C-che cavolo vai dicendo?!» ribatté Ryan palesemente irritato. La trovai una cosa alquanto divertente. Risi lasciando la presa a quella mano che mi si parò davanti qualche secondo prima.
«Si, sono io, il maritino di Ry» lo baciai su una guancia, che da rosea passò a rossa. Era carino il fatto che s'imbarazzasse per un nonnulla. «B-bene, iniziamo?» Balbettò allontanandosi da me. Tutti ci scambiammo cenni d'assenso e andammo in garage.

Il pomeriggio passò così in fretta che a stento ricordò ciò che accade, ricordo la birra che aveva comprato Spencer con un documento palesemente falso, le cover dei Blink e le risate; tante, rumorose e vere risate, che non sentivo spesso provenire dalla voce di Ryan men che meno dalla mia.
Una cosa la ricordo perfettamente però, ciò che provai quando uscii da quel garage. Una leggerissima pioggia ricoprì tutto delicatamente. Io, un po' per le birre un po' per la felicità, mi sentivo stordito e felice.
Tutto era perfetto, la pioggia, la chitarra.
«Ehi, Brendon tieni!» disse Ryan correndomi dietro con un ombrello rosa a pois verdi. «E questo di chi è?» Ridacchiai «Non chiedere» ricevetti come risposta.
«Senti, ti ricordi quando hai cantato Stairway to Heaven a cappella tra un bicchiere e l'altro?»
«Certo!»
«Vogliono che tu sia il cantante.» Nel frattempo la pioggia divenne battente e i nostri capelli si appiccicarono alla faccia.
«Non ci posso credere. Non ci posso credere!» Senza pensarci su lo baciai.
«Brendon!» Quasi urlò spingendomi lontano da lui.
«Che ti prende?» chiesi un po' irritato
«Mi hai baciato Brendon.» Mi rispose nero.
«Io sono tuo marito chiedi a Brent.» cercai di alleggerire la tensione che si era creata. «Non è divertente!» Arricciai le labbra avvicinandomi a lui aspettandomi una reazione euforica come la mia ma non fu così. «Adesso basta Brendon, cresci!» Disse sul punto di piangere. Mi mise l'ombrello fra le mani e tornò dentro. Rimasi alcuni minuti aspettando che uscisse, mi chiedesse scusa e mi abbracciasse. Non accadde.

Before PanicDove le storie prendono vita. Scoprilo ora