21

29 3 0
                                    

I mostri e i fantasmi sono reali.
Sono dentro di noi e
a volte vincono

Stephen King

Aprile 2019

Venezia è stupenda: me lo ripetevo continuamente quando dopo scuola ci andavo per seguire le lezioni in conservatorio.
Era bella soprattutto per la quantità di bei ricordi che custodiva, perché terminate le lezioni passeggiavo fino all'appartamento di mio fratello e passavo l'intera serata con lui, mangiando cibo cinese, guardandolo dipingere, ascoltando con lui musica ignorante, spettegolando e cantando i OneRepublic a squarciagola disturbando i vicini che poi suonavano al citofono pregandoci di smettere.
Scendevo dal treno e passavo intere lezioni distratta, pensando a quando avrei finalmente visto mio fratello e riflettendo su tutte le cose successe in sua assenza che gli avrei dovuto raccontare.
Quel giorno però non pensai a lui, ero troppo distratta dall'ansia che tentavo di controllare con gli ansiolitici; era giornata di esami e nonostante io sapessi di essere preparata avevo paura che l'agitazione mi rovinasse il tocco, che un'unghia si scheggiasse o peggio spezzasse o che mi venissero quegli odiosi vuoti di memoria che non ero sicura di saper superare.
Il mio professore di chitarra, conoscendo la mia ansia, mi aveva chiamata la sera per assicurarmi che tutto sarebbe andato bene, ed io mi fidavo ciecamente di lui, ma se così non fosse stato? Se questa volta si fosse sbagliato? Non avrei mai sopportato l'idea di deluderlo.
Io e il mio professore avevamo un rapporto speciale, come se fossi stata un po' sua figlia, un po' una sua alunna, un po' una sua collega e talvolta persino una sua amica.
Lui mi aveva insegnato a vivere la musica classica con meno ansia, mi aveva insegnato ad essere interprete, e non solo a studiare la teoria; mi aveva aiutata con i miei studi moderni, aveva suonato con me, mi aveva ascoltata cantare ed era stato il mio primo sostenitore. Lui mi aveva fatta innamorare nuovamente dell'arte quando stavo cominciando a dubitarne per enormi cali d'autostima, mi aveva insegnato ad apprezzare me stessa e la mia arte, sgridata quando ce n'era il bisogno e abbracciata quando tutto ciò che io volevo era una persona accanto capace di capirmi.
Lui mi aveva fatta innamorare di Roxanne, la chitarra che avevo desiderato a lungo.
Esteticamente mi somigliava parecchio: la sua cassa in abete era pallida come la mia pelle, mentre le fasce e il retro della cassa erano in ziricote, un legno molto scuro delicato come il vetro e dalle venature estremamente umane, ricordando i miei capelli mori. Aveva dei bassi caldi, e le sue note acute erano dolci ed avvolgenti, come la voce di un'elegante ragazza.
Ricordo che per casualità ero capitata nel laboratorio di un famoso liutaio che mi aveva fatto provare una chitarra secondo lui adatta alle mie mani, ma ero molto giovane e non ero chissà quanto interessata ad una chitarra di liuteria, nonostante la pressione che mi stava mettendo la mia insegnante del tempo.
Ad ogni modo sei mesi dopo tornai da lui, e mi presentò Roxanne.
La suonai, mi innamorai del suo suono e della tastiera ridotta sulla quale le mie dita premevano comodamente le corde. La portai a casa con me, e solo dopo venni a sapere dal liutaio che quella chitarra era dedicata a me, e che lui l'aveva costruita pensandomi.
Ma tornando al racconto, io e Roxanne in quel momento ci trovavamo in treno verso Venezia, pronte ad affrontare un esame per il quale ci eravamo preparate tanto, a suon di metronomo e di disperati solfeggi.
Era sul sedile accanto a me sul lato del finestrino mentre guardavamo la laguna tagliata in due dal Ponte della Libertà, e quando il treno si fermò scendemmo per ultime alla stazione Santa Lucia, dove decine di stranieri, turisti, studenti e lavoratori riempivano ogni spazio innervosendo i pendolari pieni di fretta.
Ci misi mezz'ora a raggiungere il conservatorio, passando tra le calle e superando qualche ponte.
L'umidità di Venezia era tutto ciò che odiavo di quella città: d'inverno accentuava il freddo, entrava nelle ossa e quasi indolenziva, e d'estate amplificava il caldo fino a togliere il respiro.
Quell'esame era un caso straordinario, sarebbe dovuto essere verso la metà di maggio, ma a causa di gravi e sconosciuti imprevisti del maestro, era stato anticipato.
Per fortuna le mura del Benedetto Marcello erano vecchie, e cominciai a rinfrescarmi le mani che smisero di sudare.
Mi chiamarono tra i primi e sbagliando avevo suonato nel modo più meccanico possibile, rendendo ogni movimento delle mie mani un automatismo al quale il mio cervello era abituato dopo aver suonato mille volte quei brani; fui fortunata a non avere vuoti di memoria dai quali non avrei saputo riprendermi, e nonostante la gioia della commissione, se il mio professore fosse stato lì, conoscendomi bene, avrebbe notato il mio modo di suonare e mi avrebbe rimproverata fino all'anno successivo.
Uscii con la mia bella Roxanne e chiamai il mio professore che mi tenne compagnia per una buona parte del mio tragitto per tornare a casa.
«Com'è andata con l'ansia?» Mi chiese lui.
«Bene, non tremavo nemmeno.»
«Ti stai abituando. E ti sei divertita? Sei contenta di come hai suonato?»
Ci pensai un po'. «Credo di sì.»
Lo sentii ridacchiare dall'altro lato del telefono. «Alla tua prima esibizione di fronte ad una commissione avevi una visione talmente disfattista...» Ricordò. «Stai crescendo, Ana.»
Ripensai a quel periodo. Erano passati quasi cinque anni, ero scettica nei confronti di ogni situazione sociale, soffrivo molto di più per l'ansia e detestavo mettermi alla prova con esami o concorsi.
Parlammo un po', mi disse che avrebbe voluto essere lì con me quel giorno, mi raccontò dei suoi ultimi concerti con il gruppo nel quale suonava, mi raccontò dei figli che vedeva molto poco per tutti quegli impegni musicali e poi ci salutammo con la promessa che non appena sarebbe tornato, saremmo andati a mangiare fuori per festeggiare.
Intanto passai tra le calle interne alla città, tra negozi di vetro di murano e maschere veneziane, e poi uscii, vogliosa di vedere il mare, passai sopra a qualche ponticello e salutai il gondoliere che l'anno prima si era diplomato al mio stesso conservatorio finendo poi per seguire il lavoro del padre.
Costeggiai l'acqua, sorpassai Rialto e camminai ancora tra i locali che intanto si stavano preparando al weekend con musica dal vivo o chiassose casse.
«Sono arrivata!» Strillai non appena aprii la porta dell'appartamentino, ma non ricevetti risposta.
Gettai lo zaino a terra e corsi in sala, dove mio fratello si intratteneva a dipingere ad ogni ora.
Una tavola bianca era posta su un cavalletto e qualche colore era già sulla tavolozza, ma di lui non vi era traccia.
Alcune tavole mancavano, altre erano state coperte, ed altre ancora erano in bella vista.
La casa era vuota, la porta era stata lasciata aperta ma nessuno era al suo interno; portafoglio, chiavi, cellulare e documenti erano rimasti lì, poggiati sul tavolo della cucina.

Princeps LuxuriaeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora