Capitolo Quarantaquattro

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Succede nella vita di avere un momento in cui tutto si ferma. Non si prova semplice paura, ma terrore. Il cuore sembra fermarsi per qualche minuto e l'ossigeno non sembra minimamente abbastanza per continuare a tenerti in vita.

In qualche modo però sei ancora vivo e sofferente e il dolore al petto non sembra voler andare via. Con le lacrime agli occhi il mondo sembra un vetro opaco sferzato dalla pioggia battente e la testa è un subbuglio di pensieri impossibili da domare, ma tutti oscuri e terrificanti.

Non so cosa succeda intorno a me nei minuti che seguono. Non vedo niente e non sento niente. Percepisco dei cambiamenti nell'aria intorno a me, ma il mio corpo, dopo essere caduto a terra in ginocchio, non risponde ai miei comandi.

Sono inerme, fredda, immobile, senza vita in un corpo in cui il cuore, seppur dolorante, batte ancora.

È tutto impercettibile, eppure sono sicura stia succedendo qualcosa intorno a me. Forse la porta si è chiusa, forse gli agenti sono andati via, forse era tutto uno scherzo di cattivo gusto e adesso possiamo ritornare a dormire, Trevor sarà presto a casa, sotto le coperte, ad abbracciarmi e riscaldarmi con il suo corpo. E mi darà tanti baci che io ricambierò perché è da tre giorni che non lo vedo e mi manca.

Delle braccia cercano di alzarmi di peso da sotto le ascelle. Vorrei contribuire, ma le mie gambe non sono più mie e non riesco a muoverle. Vengo presa in braccio, portata giù per le scale e il calore del corpo a contatto con il mio mi fa rinsavire per un attimo.

Percepisco un lontano rumore di chiavi, una breve conversazione e poi la porta di casa si chiude alle nostre spalle e la macchina parte, probabilmente diretta verso l'ospedale.

Le lacrime hanno smesso di appannarmi la vista e posso osservare le case scorrere al di là del finestrino. Non riesco ancora a sentire il controllo del mio corpo, però mi costringo a fare respiri profondi, calmare l'ennesimo attacco di panico e guardarmi intorno.

Sono strade che non ho mai percorso, e allo stesso tempo sono strade che la zia fa ogni giorno per andare a lavoro. Anche lei sembra visibilmente sconvolta, ma non quanto me, perché non sa tutto ciò che è successo nei giorni scorsi, non sa il pericolo che suo figlio ha rischiato più volte a causa dei Lupi.

Peter è quello che ha presto l'iniziativa. Che mi ha portata in macchina, che ha preso le chiavi e si è messo al posto di guida. L'unico lucido abbastanza da ragionare in fretta in questa situazione.

Non sono mai stata amante degli ospedali. Ho sempre cercato di tenermi lontana da questo genere di strutture. Potrei contare sul palmo della mano le volte in cui sono dovuta entrare a fare qualche visita.

I brividi mi percorrono la schiena alla vista dell'ingresso per i visitatori che è proprio accanto al pronto soccorso dove, nonostante l'ora, delle ambulanze stanno lasciandosi dietro dei pazienti.

Peter parcheggia e scendiamo dalla macchina. Non so come muovermi, lascio quindi alla zia il compito di farci strada e la seguo a testa bassa. Non voglio guardarmi intorno, non ho intenzione di vedere altro se non il pavimento su cui sto camminando e Trevor.

Penso a Trevor e gli occhi mi si appannano di nuovo. L'ho aspettato e lui non è arrivato. Sapevo ci fosse qualcosa che non andava, qualche problema. Mi aveva fatto una promessa, l'avrebbe mantenuta ad ogni costo se non fosse stato per i Lupi. Metterei la mano sul fuoco sia stata colpa loro, perché anche se Tyler è in carcere, c'è sempre un modo per comunicare con l'esterno.

La zia si ferma davanti ad un bancone, io e Peter rimaniamo subito dietro di lei. Conosce l'infermiera di turno perché la chiama per nome. Non chiacchierano tanto. Dobbiamo andare nella stanza 108, è al terzo piano in... terapia intensiva.

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