Capitolo 1 - L'incubo

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La pioggia picchietta contro i vetri dell'abitacolo, accompagnata dal lento strofinio dei tergicristalli sul parabrezza.

Questa sinfonia mi piace, mi culla. Mio padre però non sembra della mia stessa idea, perché di punto in bianco preme il clacson con il palmo della mano e lancia l'ennesimo improperio.

Siamo fermi da qualche minuto, ma è da circa mezz'ora che procediamo a passo d'uomo, bloccati in una lunghissima fila di automobili rimaste in balia della pioggia.

“Sono le cinque e quaranta. Le cinque e quaranta!” tuona mio padre, battendo le mani contro il volante per scaricare la rabbia e il nervosismo. “Dovevamo essere arrivati mezz'ora fa o anche prima”.

“Pablo comunque mi ha scritto che è riuscito a trovare un posto a sedere” mormoro, rigirandomi il cellulare tra le dita.

Mio fratello, Pablo, un metro e novanta di muscoli e senso di superiorità, studia all'estero, ma è tornato in Italia per il Ponte di Ognissanti. Il suo aereo è atterrato da un pezzo, ormai, e il poverino è costretto ad aspettare al calduccio in aeroporto, mentre noi siamo imbottigliati nel traffico e avanziamo come lumache solo per arrivare da lui, caricarlo a bordo e portarlo a casa.

Ditemi se non è fortemente ingiusto!

“Buon per lui” commenta infatti mio padre, così acido da farmi rabbrividire.

Sospiro e volto la testa verso il finestrino, mentre lui continua a lanciare improperi ai guidatori delle automobili davanti e dietro di noi, sebbene quelli non possano sentirlo, ma inveisce anche contro la pioggia e il mondo in generale.

Mi isolo dalla realtà, in modo che le frasi colorite che escono dalla sua bocca giungano a me indistinte, come se mi trovassi a chilometri e chilometri di distanza. Mi concentro sulle curve sinuose che le gocce d'acqua tracciano sul finestrino alla mia destra e appoggio la mano sul vetro gelido. Mi prendo qualche minuto per ammirare il grigiore delle nuvole cariche di pioggia e i campi color verde spento che si intravedono tra i guardrails che delimitano la strada.

Quando ho finito di fotografare con gli occhi il mondo malinconico che mi fa compagnia, abbasso lentamente le palpebre e mi lascio cullare dalla ninnananna suonata dalla pioggia.

Nel frattempo per fortuna mio papà ha smesso di imprecare, probabilmente perché le macchine davanti a noi hanno ricominciato a muoversi. È così che finalmente riprendiamo ad avanzare.

Il leggero brontolio del motore mi rilassa ancora di più, perché lentamente, senza neanche accorgermene, scivolo nel sonno e, per la precisione, in un sogno alquanto particolare.

•••••

Mi ritrovo in una stanza d'ospedale dalle pareti così bianche da far male agli occhi. Mi guardo attorno e vedo due file di letti con le lenzuola bianche rigorosamente piegate e alcuni macchinari al loro fianco.

Mi alzo da uno dei letti e cammino fino all'unica finestra presente, al centro della parete in fondo alla stanza. Con la punta delle dita scosto la leggera tenda di lino che la protegge e sbircio fuori, per trovare davanti ai miei occhi le lapidi di un cimitero di campagna.

Spuntano dal terreno fangoso in modo disordinato, così semplici e fredde da farmi accapponare la pelle.

Il silenzio che regna attorno a me mi spaventa: è surreale.

Oltre al cimitero, una nebbia tenue e misteriosa avvolge qualunque cosa ci sia all'orizzonte.

“Sei arrivata, finalmente”.

Una voce profonda e morbida come il velluto giunge fino alle mie orecchie e mi fa girare di scatto. Stringo ancora nelle mani il tessuto della tenda.

I miei occhi colgono subito l'ombra che sosta su uno dei letti della camera d'ospedale.

“Chi sei?”. La mia voce è rauca e tremolante, forse perché quella figura, interamente vestita di nero e dai contorni non ben definiti, non sembra umana e non sembra nemmeno avere buone intenzioni.

Non mi risponde, ma si alza e mi raggiunge, scivolando sul freddo pavimento di piastrelle bianche. Si ferma a pochi centimetri da me, ma ciononostante non sono ancora in grado di scorgere i tratti del suo viso, perché non ha un viso. Al posto della faccia ha un'oscurità che si infittisce e che turbina su se stessa.

Mi gira la testa solo a guardarla e con una mano mi sorreggo al davanzale della finestra dietro di me, freddo come il ghiaccio e scivoloso, come se fosse bagnato dalla pioggia.

Nessuna parola spezza il silenzio, ma l'ombra non sembra preoccuparsene. Solleva un dito e per un istante mi rassicuro, perché è un dito umano, ma poi lei lo distende e vedo un'unghia affilata e di color nero pece.

Prima che possa porre altre domande, la figura oscura appoggia il suo dito acuminato su una delle mie guance e, con una lentezza opprimente ma quasi solenne, lo sposta lungo la mia mascella, fino al mento e poi sul collo, sul petto e più in giù.

Trattengo il respiro mentre lei percorre in silenzio il mio corpo, come se lo stesse disegnando. Non oso fiatare, non oso muovermi. Mi limito ad aspettare che abbia finito e, quando ha finito, mi sento scivolare, come se fossi avvolta da un velo e cadessi aggraziatamente.

•••••

Sobbalzo e spalanco gli occhi di scatto, mentre con la testa mi raddrizzo e mi rimetto a sedere composta. Stavo dormendo e mi sono appena svegliata, ancora sul sedile posteriore della macchina di mio padre.

“Stiamo arrivando, finalmente” biascica lui, picchiettando con i polpastrelli sul volante e imitando così la pioggia che ancora scroscia al di là dei finestrini.

Mi stiracchio, per quanto sia possibile stiracchiarsi in uno spazio così ristretto, e sbatto più volte le palpebre. Il ricordo dell'incubo che ho appena avuto invade pian piano la mia mente e porta con sé una grande confusione riguardo al suo significato.

È stato inusuale e anche piuttosto inquietante, ma d'altronde sono abituata a fare sogni bizzarri. Presto relego quelle immagini e quelle sensazioni in un angolo della mia mente e riprendo a vivere la mia solita vita, ignara di cosa quel sogno abbia innescato.

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