15. L'ostello

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Luca si stropicciò gli occhi, poi tirò il lenzuolo fin sopra la testa, nel tentativo di ignorare la luce bianca che illuminava la stanza dell'ostello come fosse un ospedale.

«Cristo, ma non ti hanno detto che dopo le dieci di sera non si può accendere la luce?» bofonchiò da lì sotto.

Dominik non rispose.

Non che Luca si aspettasse una risposta, naturalmente Dominik non poteva capire, così come non potevano capirlo la maggior parte delle persone alle quali borbottava parole in italiano quando era troppo stanco per cercare di spiegarsi in inglese. Da quando era arrivato a Londra, parlare nella lingua madre era diventato un fatto personale, una necessità di esprimersi più che di comunicare.

Era atterrato all'aeroporto di Stansted una settimana prima, e aveva avuto modo di rendersi conto subito che l'inglese parlato dalla sua insegnante delle superiori e quello parlato dagli inglesi erano due lingue diverse. E sì che lo aveva detto e ridetto la professoressa d'inglese, che bisognava farci l'orecchio, ma una differenza così non l'aveva messa in conto. Diceva anche che dovevano guardare i film in lingua originale. Rimpianse la sua pigrizia e di non averle dato retta.

Una volta uscito dall'aeroporto si era diretto alla stazione degli autobus e aveva chiesto informazioni riguardo alla corriera per il centro.

Una ragazza con una giacca arancione smistava i passeggeri in diverse file separate da transenne metalliche, ognuna delle quali terminava davanti a un pullman, e sbraitava «Bow, Mile End, Whitechapel, Southwark, Waterloo, Victoria Train Station!»

«The centre? The centre?» le aveva chiesto Luca più volte.

Lei lo aveva ignorato e aveva continuato a urlare i nomi delle stazioni, rivolgendosi a una folla invisibile. Il suo sguardo lo attraversava, come se fosse trasparente.

Wow, sembra proprio che non mi veda aveva pensato Luca, affascinato da quell'abilità.

Nei giorni successivi avrebbe avuto modo di scoprire che a Londra quello era un talento abbastanza comune. Era esattamente questa l'arte che voleva imparare. Ignorare. Le persone, le situazioni, i ricordi e tutto ciò che gli impediva di vivere sereno. Guardare attraverso di loro, senza essere nemmeno lievemente disturbato dalla loro presenza.

Si era avvicinato alla ragazza sempre di più, continuando a ripetere «the centre? The centre?». Più la distanza fisica tra loro si accorciava, più quella domanda si spogliava del suo scopo, e gli sembrava di sciogliersi in quello sguardo vuoto. Invece che essere irritato dal fatto che lei lo stesse ignorando si era sentito tranquillo. Era come se fosse entrato insieme a lei in un vortice di alienazione, eppure era un vortice sereno, che non gli dava vertigini, ma quasi lo cullava.

Senza accorgersene le si era avvicinato troppo, al punto che se solo avesse fatto un piccolo passo in avanti le loro teste si sarebbero scontrate.

Lei non sembrava disturbata o impaurita, e per tutta risposta gli aveva rivolto uno di quei sorrisi plastificati che si vedono nelle pubblicità, con la bocca tirata agli estremi da due fili invisibili e lo sguardo perso in un punto indefinito dell'orizzonte. Gli aveva gridato in faccia le stesse destinazioni che un istante prima aveva urlato all'aria «Bow, Mile End, Whitechapel, Southwark, Waterloo, Victoria Train Station!»

«Oi, guarda che non sono mica sordo!» aveva protestato Luca, in italiano, riportato di colpo alla realtà.

C'era qualcosa di ipnotico in quelle labbra laccate di rossetto e dotate di una fila di denti bianchissimi, che a pochi centimetri dalla sua faccia urlavano con la potenza di un megafono.

L'Appartamento di Bond StreetDove le storie prendono vita. Scoprilo ora