PROBLEMI DI LOVOTICA

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<<Al diavolo tutto!>>

Un chiodo fisso, una fisima senza tregua, una testa che ribolliva, un ottimo fumetto di pesce. Weston stava sdraiato sulla cassapanca con le gambe a penzoloni, fissava la luminescenza che emanava il lampadario, sperando di trovare una soluzione al malessere che da tempo gli attorcigliava lo stomaco. Quando qualche lacrimuccia si faceva strada, aggrottava la fronte quasi per facilitarne l'uscita.

Era una mattina di dicembre, fuori pioveva a dirotto, dentro Weston la situazione meteorologica non prometteva di meglio. Era sempre la stessa storia, un loop infinito, la stessa cazzo di trama, stesso regista ma diverse comparse. Weston dal corpetto magro e dalla testa quadrata, figlio dell'alta borghesia, enfant prodige dell'ingegneria robotica, sbarbato studentello liceale rifiutato dall'ennesima sineddoche.

Sedici anni di rifiuti, abbastanza da aprirci una discarica.

Sulla sineddoche non c'è molto da dire, era la figura retorica preferita dai suoi coetanei. Ormai il topos della donna angelo rimaneva unicamente tra le pagine ingiallite delle antologie mai aperte, tra i corridoi del liceo le topiche erano ben altre. Quando Anne sfilava fuori da scuola qualcuno mormorava sempre: <<Hai visto che bella figa?>>. Quando Elizabeth si recava alla macchinetta delle bibite per il suo caffè dell'intervallo pomeridiano c'era sempre qualche simpatico che rivolgendosi al suo amichetto intonava il tutto per una parte: <<Minchia che figa!>>.

Weston sentiva gravare su di sé un'insignificanza sociale inaudita, non se lo filava nessuno. Quei pochi che si relazionavano con lui gli davano l'impressione di entrare in contatto con la sua anima esattamente come chi sfiora i muri delle pareti di casa, attraverso quello stato di leggerezza e indifferenza, che ti fa sentire cieco nonostante tu goda delle attenzioni di qualcuno.

L'ennesimo due di picche preso da Anne, lo portava una gelida mattina di dicembre a distendersi su un vecchio mobile in soffitta riversando tutta la sua frustrazione sul mondo ma soprattutto colpevolizzando sé stesso per non riuscire mai a far breccia nel tessuto sociale che tanto anelava quanto gli faceva ribrezzo.

Prima legge della formazione della psiche: tutto ciò che non si riversa verso l'esterno, ritorna sui suoi passi;

Weston aveva investito tante energie mentali per conquistare Anne e una volta che il suo investimento non trovava catarsi, gli rimaneva tanta energia latente destinata al consumo. Per non implodere aveva bisogno di un giusto mezzo per incanalare tutto quel desiderio esplosivo che lo attraversava da testa a piedi.

Ad un tratto, mentre alzava il suo tisico corpo dalla postazione su cui era sdraiato mettendosi in posizione seduta, ebbe un colpo di genio. Un'intuizione improvvisa. Senza pensarci due volte sgattaiolò via dalla soffitta, con frenesia e ardore zampettò per tutte le scale di casa recandosi in prossimità dello scantinato. Aprì con irruenza il portone di ferro che separava il seminterrato dal garage adiacente, e appena mise piede tra quelle quattro mura, una sensazione di candore gli accarezzò il cuore. Era il suo mondo, la sua via di fuga dalle insicurezze. Quel bugigattolo era perfetto, nulla era fuori posto, in pochi metri erano condensati tutti i macchinari atti per la costruzione di congegni di alta robotica. I bracci meccanici semoventi penzolavano dal soffitto, le stampanti 3D parevano incollate alle pareti, infine i processori hardware e software al centro della sua postazione potevano far concorrenza ai migliori centri di ricerca e sviluppo tecnologico presenti in città.

Per quanto riguarda Weston, lui era la vera punta di diamante. Costruiva di tutto. Fin dalla tenera età per la festa della befana non si aspettava i dolciumi, ma calze piene di cavi transistor. Le sue giornate erano cadenzate e procedevano a ritmo delle macchine che tanto adorava. Pensava, andava in bagno, si recava al bus esattamente come loro. Movimenti a scatti e goffi, pensieri in base binaria, 0 o 1, vero o falso, bianco o nero. Nessuna sfumatura e sbavatura era contemplata dal sistema.
A furia di stare nel suo laboratorio era diventato come le sue adorate. Ogni tanto ci parlava pure, diceva che erano le sue "macchine domestiche" e anche loro come gli animali da compagnia avevano bisogno di affetto. Per questo, due volte a settimana, una passata di Svitol e una spolverata erano gesti indice di affetto e compassione.

Weston quella mattina pareva indemoniato, attivò tutta la sua catena di montaggio, lavorò duramente in tutti quegli spazi vuoti che intercorrevano tra il suo rientro a scuola e l'ora serale quando era solito coricarsi. Nel giro di tre intense settimane aveva stampato tutti i pezzi, assemblati e saldati a dovere, programmato i circuiti di base, e dopo tanti sforzi e diverse camicie sudate aveva dato luce alla sua creatura. La chiamò Genny, in onore della sua nonnina. Quell'agglomerato di fili metallici era un robot dalle fattezze femminili fatto ad arte, gommato e ben studiato per imitare a dovere la fisionomia di una giovane fanciulla. Genny era alta poco più di un metro e cinquanta, ottime forme, capelli biondi in silicio, unghie di poliuretano curate e smaltate. Aveva un'intelligenza artificiale di estrema caratura settata per rispondere alle richieste del suo artefice risolvendo una moltitudine di compiti e capace di muoversi in maniera polivalente all'interno dell'ambiente.

Quando attivò i motori di Genny, Weston si rivolse così alla sua opera: <<Da oggi non sarò più solo, non mi vuole nessuno; va bene. Da questo momento cara Genny sarai mia amante, amica e compagna di gioco>>.

I giorni successivi furono elettrizzanti, mano nella mano, come due piccioncini a sfilare per le strade di paese. La voce girò alla velocità della luce. Weston e Genny erano sulla bocca di tutti, i compaesani guardavano la coppia con gli occhi spalancati, non potevano crederci che quell'impacciato di Weston girava con cotanta bellezza. I coetanei adesso si fermavano a salutarlo, pacche sulle spalle e belle parole si sciorinavano. Tutto d'un tratto si erano accesi i riflettori sopra Weston, il giovane prodigio della robotica era il mondo e tutta l'attenzione defluiva verso il suo epicentro. Furono giorni di estasi pura, il ragazzo era al settimo cielo.

Eppure, sotto sotto qualcosa non tornava. L'idillio di Weston era al capolinea. I binari sopra cui la sua mente aveva percorso i giorni a seguito della creazione erano ben oliati, di piacevole percorrenza; si prospettava una corsa gioiosa e appagante che invogliava al proseguimento. Eppure, la strada ora si faceva tortuosa, la mente iniziava a deragliare, il carbone che alimentava la vettura non spruzzava più nuvole di gioia ma flutti d'inquietudine offuscavano tutti i vetri dei vagoni.

- Genny, Genny, mia cara Genny ma tu davvero cosa provi per me?
- Farei di tutto per te, mio creatore.
- Dimmi che mi ami, fallo e rifallo fino a quando sarai stanca.

Intanto all'interno della macchina: bip bip bip elaborazione del processo e computo base. Selezione griglia dell'affetto; procedi con dimostrazione amore, output in corso.

- Bene Weston, potrei iniziare a prepararti le pappardelle al ragù di coniglio. Rientra tra le opzioni della griglia dell'affetto mio padrone.
- Dannazione!

Weston stava male e non capiva perché. Ora che era neofita dell'amore, possessore di Genny, attore sul palco, tutto ciò che pensava lo potesse riempire, ora lo svuotava. In fondo aveva sempre pensato che non vi fosse differenza tra una macchina e un uomo.
<<Prima o poi le mie creazioni saranno umanoidi più umani degli umani>> così si rivolgeva a mamma e papà.

Alla domanda su come ci si relaziona con gli altri, rispondeva argutamente che prima bisognava conoscerne l'essenza di qualcosa, poi ci si poteva avvicinare nella giusta maniera. Cosa era l'altro per lui? "Un ammasso di materia bio-sintetica replicabile in fili di ottone, cervello sinaptico che funziona come una scheda RAM estremamente sofisticata".

Il sipario della verità iniziò a squarciarsi facendo filtrare la sua magnifica luce. Weston non amava, non sentiva la spinta verso l'altro, per la prima volta Genny appariva per ciò che realmente era, Genny era un robot. La sua mente capì, il suo schema si frantumò in mille pezzi. Roso dall'inquietudine, bistrattato dalla vita, possedeva quell'automa come possedeva un paio di scarpe; e Weston imparava che l'amore non si aggirava tra i possessi e le proprietà, quell'amore puro che tanto sognava debordava ogni piano della logica e delle meccaniche racchiuse in un automa.

Nell'amore vogliamo che l'altro sia tutto per noi, abbiamo occhi solo per lui, ma non vogliamo che l'altro sia schiavo di una nostra furia passionale, che sia un robot alle nostre dipendenze, l'amato è per l'amante colui nella quale la libertà dell'altro accetta di perdersi. Mio, ma libero di voler essere mio, obbligato ad amarmi ma libero in questo obbligo.

"Prigionia che deve essere insieme rinuncia libera e incatenata nelle nostre mani"
- cit. Sarte

Weston sprofondava lentamente dal piano della logica a quello del senso, iniziava a comprendere che i segnali e gli impulsi su cui si innestava la natura di Genny non potevano cogliere la profondità dei significati. Per Genny un lutto non significava niente, era solo un'altra sequenza comportamentale da inscenare secondo una griglia pre-comandata. Genny non sentiva nulla, semplicemente funzionava, ecco il dramma.
L'amore, rapporto speciale che intratteniamo con L'altro, aveva aperto a Weston la strada alla coscienza che apriva a quell'abisso insondabile tra l'uomo e la macchina. 

Weston chiamò Genny a rapporto e andarono insieme in soffitta.
Il silenzio della casa fu interrotto da un frastuono metallico, la soffitta era ora diventata una scena del crimine e Weston, per l'ennesima volta, sdraiato sulla cassapanca, borbottava:

<<Al diavolo tutto>>.

PROBLEMI DI LOVOTICADove le storie prendono vita. Scoprilo ora