Lei chi è?

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"Avanti, Ohcumgache. Hai dormito abbastanza!".

Fu un tornado quello che si abbatté sul povero John. Le tende, che Cairstine aveva avuto la premura di tirare per lasciarlo riposare nella penombra, si spalancarono d'un colpo, lasciando irrompere i raggi del sole nella stanza. E le coperte, le morbide calde coperte che l'avevano avvolto in quelle ore di dolorante torpore, volarono per aria avvitandosi su loro stesse.

Il ragazzo, con la testa ancora pesante, alzò lievemente la palpebra sana: "Sei tu, Vóóhéhéve... Che vuoi?", brontolò rannicchiandosi contro il cuscino.

Si chiamavano reciprocamente così, loro due: Piccolo Lupo e Stella del Mattino. Come i due grandi capi cheyenne alleati che avevano dato filo da torcere alle truppe federali statunitensi, prima di vedere parte del loro popolo deportato in Oklahoma, nell'ultimo ventennio dell'ottocento. Ma non era un gioco, quello, per loro: dietro alle figure mitiche di guerrieri giudicati ammirevoli fuorilegge, se ne stava nascosta l'identità di John. Che in molti avevano voluto cancellare, per meglio sopravvivere.

Lawson, no. Con la testardaggine che possedevano i suoi avi, avezzi alla ribellione e strenui difensori di una terra contesa, lui capiva. E lo assecondava nella cura di quel brandello di cultura indiana che la storia aveva travolto, e che secoli dopo, proprio perché erano trascorsi duecento anni di assoluto silenzio, altrettanto duramente andava difesa.

Quel giorno, però, ciò che il fratello di Cairstine aveva da dirgli lo avrebbe offeso, senza dubbio, e probabilmente fatto adirare. "Ohcum", Lawson si sedette sul bordo del materasso, facendolo sobbalzare. John sapeva che nessuno, né Cairstine né Scott, avrebbero potuto nascondergli a lungo la sua faccia tumefatta. "Perché non mi hai fatto avvisare, quando sei arrivato al ranch in questo stato?".

John si sollevò a fatica e con altrettanto sforzo provò a fornirgli una motivazione che non lo mandasse su tutte le furie: "Lo avrei fatto, credimi. Ma la ragazza mi ha dato un passaggio e, quando siamo arrivati, ci hanno accolto tua sorella e tuo cognato. Io ero a pezzi, non volevo crearti problemi. E poi c'era un'estranea in casa. Abbiamo agito usando il cervello".

"Mmm", Lawson strinse le labbra per non lasciarsi scappare qualche considerazione di troppo. "Chi ti ha pestato? Bischoff, immagino".

"Lui". John confermò con una smorfia e si tastò il naso gonfio.

"Non è riuscito a spaccartelo", Lawson gli sollevò il mento per trovare conferma nella diagnosi emessa dal medico della riserva, che alla fine aveva visitato il ragazzo in gran segreto. "Puoi ritenerti fortunato, almeno per oggi. Ma perché questa volta? L'hai provocato con altri versi? Dimmi com'è andata".

"Non più del solito, fratello. Stavo andando al lavoro e mi raggiunto, credo mi stesse seguendo da un po'. Ieri sera ho diffuso una delle mie poesie, è vero, ma parlava d'amore. Non so se qualcuno gliel'ha fatta avere, proprio non lo so...".

Lawson sospirò. La sua mano grande volò fin sul capo del ragazzo e la carezzò piano: "Allora vuole colpire me", ragionò a bassa voce. "E non trova altro mezzo se non colpire te, quel vigliacco".

"Sì, è così...". John si ricordò della conversazione avuta con Bischoff. "Mi ha ordinato di portarti un messaggio: le vostre rivendicazioni - ha detto - sono finite". Quindi, restò per un istante a fissare il suo amico, fattosi pensieroso. "Credi che sappia cosa stai combinando?".

Un piccolo sorriso spuntò sul viso di Lawson: "Certo che lo sa, il bastardo. Lui e suo padre hanno i contatti necessari per informarsi a dovere e senza troppo impegno; eppure, finge di non sapere. Ha paura, questo è altrettanto evidente, e si diverte a minacciarmi, ma ci siamo Ohcum...". I suoi occhi chiarissimi si allargarono, illuminandolo tutto: "Ci siamo quasi. Avremo la nostra soddisfazione, te lo giuro".

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