Capitolo 2

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Sophie

In piedi sul primo scalino in legno mogano, traforato dai tarli e mangiato dal tempo, sentii Davide che discuteva con la madre, non capii bene di cosa si trattasse la discussione e non volevo sembrare neanche troppo invadente, chiunque fosse passato di lì avrebbe pensato che stessi origliando, così, anche se Francesca ancora non era pronta, scesi le scale per avviarmi all'uscita.
Quando poggiai il piede sull'ultimo gradino abbandonai la ringhiera che stringevo come una pallina di gomma, abbassai la testa e pensai solo ad arrivare all'uscita.
La madre di Davide disse qualcosa, ma io sentii solo un insieme di suoni e parole che rimbalzavano dentro la testa.
Mi girai rossa in viso e con quel po' di voce che la mia ansia mi aveva lasciato farfugliai:
«Co-come scusi? Può ripetere».
«Dove state andando?», ripetè, mi guardava da lontano, la intravedevo dalle porte semi-aperte della cucina.
«Ad una festa», risposi.
«Vieni tesoro», aggiunse.
Entrai in cucina e sedetti sugli sgabelli, sul tavolo c'era un bicchiere vuoto sporcato di liquido vinaccio e un aspro odore che circolava nella stanza.
Notai l'orecchino mancate nell'orecchio sinistro e la perlina sul bancone; mi ricordai che nel passaggio dal salotto avevo visto la farfalla sotto il tavolino in legno davanti al divano.
Mi offrì qualcosa da bere e da mangiare, ma rifiutai, poi si avvicinò alla portafinestra e si accese una sigaretta.
«Come stai?», mi chiese.
«Bene, lei come sta?».
Alzò gli zigomi incipriati di rosa in un sorriso e lì notai la somiglianza così evidente con Francesca, ma il taglio degli occhi era uguale a quello di Davide, lo stesso sguardo profondo, le venature pastello contornate dal verde smeraldo che sfumava, ma allo stesso tempo così intenso e vivo.
«Tesoro ormai mi dai del "lei"? Ti conosco da quando eri una bambina, non devi essere formale con me».
Ricambiai il sorriso amorevole che mi porgeva.
«Io sto bene grazie», mi guardò il viso ed io abbassai gli occhi, poi aggiunse: «Hai gli occhi dubbiosi, c'è qualcosa che non va?».
Alle volte sembrava mi comprendesse meglio di mia madre, ma io un po' l'avevo dimenticato, mi vergognavo quando dovevo parlare di me.
«No, è che mi piace un ragazzo, ma ho paura... Non vorrei che fosse come tutti gli altri, che non appena mi ha in pugno inizia a trattarmi male».
«Credimi so molto bene che significa. Hai paura di diventarne dipendente e che nonostante ti tratti male tu non riesca a farne a meno».
era una donna che ogni giorno veniva spogliata della sua dignità, un tronco concavo che aveva perso la vitalità per un uomo che si credeva superiore di lei, ma che alla fine, a parer mio, la temeva. Vedeva in lei la forza di cambiare vita e di realizzarsi, lui da gran ipocrita e fallito decise di calpestare la più bella delle rose rosse che era cresciuta per caso nel suo giardino.
Spesso la vita ci da tanto e non c'è ne rendiamo conto.
«Spogliare una donna della sua dignità è come togliere alla terra l'acqua», riflettei. E tutte le volte che aveva pensato di togliersi la vita, perché si riteneva incapace di agire, era il modo più straziante di farle del male; tutte le volte che piangeva in silenzio costretta a soffocare le lacrime, picchiata come un sacco da box e abusata, guardarla dimenarsi sul letto cercando di liberarsi, come una docile preda che è stata ferita e urla con tutta se stessa che vuole continuare a vivere, ma la debolezza la sopraffà, le gambe tremano cercando di chiudersi, il cacciatore allora usa le mani come armi e le stringe il collo con così tanta forza che potrebbe espirare il suo ultimo respiro dentro quello spiraglio che la stretta dell'uomo le ha lasciato, mentre l'esofago chiede pietà e la pelle rosata si tinge di viola, assumendo sul collo la forma della mano come un tatuaggio fatto senza inchiostro.
Gli occhi trasudano il dolore attraverso le lacrime, gli occhi sono gli unici liberi di fare ciò che vogliono, mentre la mente viene compromessa; in quel momento ne è ancora ignara, ma il ricordo della notte passata con l'alito d'alcol del cacciatore sulla sua nuca rimarrà impresso per molti anni, insieme alla fobia di essere sfiorata, anche per sbaglio, anche da un passante che si stringe a lei per la confusione.
Alla fine il cacciatore si alzava soddisfatto, tirando su per bene la cerniera dei jeans, e la preda lì, vuota, nuda; finalmente le sue ginocchia si potevano toccare, le sue braccia potevano coprire le parti intime, il corpo sembrava intatto, ma la mente si manifestava l'ultima volta con la goccia finale che scendeva dall'occhio destro, in bilico tra voltare pagina e bruciare il libro.
Le fissai le cicatrici ai polsi oramai bianche, di lì vi era passato il tempo con il suo orologio da taschino proprio come quello del Bianconiglio, gli aveva sussurrato all'orecchio che purtroppo i segni sarebbero rimasti, ma che un giorno non avrebbero fatto più male.
«Perché l'amore deve fare così male?», domandai.
«Perché tutto ciò che ha il potere di farti del bene avrà anche il potere di farti del male. Bisogna solo chiedersi se ne vale la pena».
Fissava il vuoto toccandosi il lobo senza orecchino, così mi alzai dallo sgabello e andai a recuperare la farfalla per poi porgergliela.
«Ah ecco dov'era finita!», sorrise sorpresa.
«Credo che ne vale la pena», mormorai riferendomi a ciò che aveva detto.
«Io credo che per me non è mai valsa e nonostante tutto ho sempre provato a dargli opportunità. Credo sia arrivato il momento di mettere un punto e andare avanti».
Mi prese le mani e me le strinse affettuosamente.
La osservai attentamente mentre indossava l'orecchino, il suo viso era appena un po' più rugoso, i capelli erano corti e retti, la sua pelle rosata priva, per la prima volta, di lividi.
L'ammiravo, era un aereo in partenza, sempre pronta a spiccare il volo, anche con mille turbolenze pronta a prendere in mano la sua vita, anche se con occhi lucidi e braccia livide.
Pronunciai un timido sorriso e mi allontanai.
Uscii fuori nel vialetto, Davide era là, su quella panchina in ferro, aveva le nocche livide e la sigaretta tra le dite, il fumo sopra la testa e lo zigomo giallastro con alcune venature di viola.
«State uscendo?», mi domandò.
«Si, c'è una festa... tu non vieni?».
Mi avvicinai a lui a passi lenti e controllati.
«Credo di si».
Guardava in basso, il fumo gli usciva dalle narici, il suo viso sembrava serio.
«Per ora preferirei non far capire nulla agli altri di noi. Siamo solo amici, okay?», annunciai.
Di sfuggita si morse il labbro, seguito da una smorfia d'intesa, poi si alzò in piedi, immobile a qualche centimetro dalle mie labbra.
«Okay».
Si avvicinò al mio orecchio e con la sua voce calda sussurrò:
«Non impazzire se mi vedi parlare con le altre, ai loro occhi sono ancora single».
Il cuore mi scoppiava dal petto, ma riuscii a ribattere:
«Ricorda che le altre non sono me e tu è me che vuoi o sbaglio?»
«Ti voglio con ogni fibra del mio corpo e della mia anima».
Alzai gli occhi al cielo in estasi, sentivo la mia pelle pulsare, il mio cuore tremare e il mio ventre formicolare.
Uscii dal cancelletto devastata, mi chiedevo per quanto ancora la mia lucidità avrebbe avuto la meglio su di lui.
Valerio era in auto che ci aspettava
«Stai uscendo con noi?», domandò Francesca a suo fratello mentre passava una mano tra le ciocche dei capelli umidi per togliere i nodi, nonostante fossero evidentemente pettinati.
Davide acconsentì e salì in macchina nel posto accanto a Valerio.
«Come stai fratello?».
Si salutarono dandosi la mano seguita da una pacca sulla spalla.
«Tutto okay».
Avevo le pupille ristrette per la tensione, curavo ogni mio gesto, dal semplice tocco dei miei capelli al controllo maniacale dei miei occhi che cercavo di zittire.
Giungemmo in una strada di campagna, il sole stava calando donando quell'aranciato colore alle nuvole che all'orizzonte si coloravano di bordeaux, il cielo era limpido e noi quattro correvamo su quella strada sterrata in mezzo al nulla, ricoperta d'erbacce e piena di fossi. Ad un certo punto Valerio decelerò, non conoscevamo la strada per arrivare alla festa, in più il sentiero solcato dai massi ci scuoteva forte,
«A destra!», urlò Francesca, quando all'improvviso il navigatore cambiò rotta, facendoci notare che eravamo sulla strada sbaglia, così intervenne: «No, aspetta! Era a sinistra...».
«Passami il telefono!», esclamò Valerio.
Fermò l'auto, eravamo ancora dispersi, con la connessione debole e il sole che era appena tramontato, il buio si infittiva e noi non sapevamo dove andare.
«Sophie tu riesci a leggerlo?», mi domandò ed io annuii.
Girammo per un quarto d'ora fino a quando davanti ai nostri occhi si scorse il muro con le pietre ad onde della campagna.
Oltrepassammo il cancello in acciaio lucido, sembrava l'ingresso di un caveau, percorremmo un enorme sentiero in pietre panna levigate che portava nel retro della casa dove c'era un'enorme piscina quadrata a sfioro, somigliava a quella di Diego, un mio amico di Milano, solo che la sua era al chiuso con l'acqua calda e l'idromassaggio, la usava per ospitare qualche festa nei periodi invernali, io più o meno l'avevo vista un paio di volte, Mattia era geloso e non voleva mi mettessi in costume davanti a delle persone, per assicurarsi che non lo facessi mi diceva che si vedevano i chili in più che avevo preso, la pelle caduta dalle bretelle e le smagliature troppo evidenti che mi solcavano la pelle come dei tagli, non ero fatta per stare in costume diceva, era meglio se mi sedevo di lato tutta coperta o sarei finita col far ridere gli altri; ed io mi sentivo così, un elefante in una cristalleria.
Ci togliemmo i vestiti per restare in costume.
Mi sedetti sul bordo della piscina in mattonelle bianche, la luce colorata blu mi illuminava il volto, le mie amiche parlavano distratte, io neanche le ascoltavo, sentivo solo un mormorio offuscato nella mia mente.
Bagnai appena i piedi, li muovevo in cerchio dentro l'acqua cristallina, strinsi il bordo e fissai il fondo, incantata nel mio riflesso, imprigionata in una serata che se solo avessi potuto avrei fatto scomparire tutto per restare da sola con lui.
«Tieni, prendi un pezzo di pizza!», esclamò Ginevra porgendomi il cartone oleoso con pezzi di pizza messi a caso e con la mozzarella che cadeva dai lati.
Profumava tantissimo, l'aspetto era invitante, tanto da far venire l'acquolina in bocca, ed io la bramavo, ma non la volevo prendere, mi vergognava il pensiero che qualcuno potesse pensare che stavo mangiando troppo.
L'afferrai d'istinto e la mangiai in un boccone, come se non vedessi cibo da anni, il senso di soddisfazione era inappagabile, ma durò poco più di qualche minuto.
Ne volevo ancora e ancora.
Mi sedetti davanti al cartone e ne mangiai un altro pezzo, ne volevo ancora, ma quando lo sollevai il sudore gelido scese dalle mie tempie.
Mi toccai la pancia con il braccio, era gonfia, fu come un pugnale sul petto, il mio stomaco iniziò a strizzarsi come un panno bagnato, sentivo il groviglio salirmi fino alla gola e un senso di vomito che bruciava l'esofago.
Guardai il pezzo di pizza e lo riposai sul cartone, sfregai le mani tra loro e corsi in bagno.
Spinsi la porta con il retro della schiena e tirai un lungo sospiro, mi guardai un po' in giro: le mattonelle blu del pavimento risalivano di tre quarti il muro, lasciando poi della vernice bianca che colorava fino al soffitto con delle macchie di muffa nei quattro angoli. Strizzai gli occhi disgustata ed abbassai lo sguardo, di fronte a me c'era una vecchia doccia con la tenda in carta a pois, il muro era lercio, ma sembrava fosse così da un bel po'. Il gabinetto era più o meno pulito, mancava la copertura di sopra per scaricare, al suo posto vi era una maniglia in acciaio da tirare.
Mi poggiai con le mani sul lavandino e mi guardai allo specchietto sopra.
E poi sono crollata, una maledetta ricaduta, volevo scappare o nascondermi nel più piccolo angolo della terra, vedere la pancia così gonfia mi aveva creato una sensazione di malessere, tanto che il dolore più grande veniva dallo schifo che provavo a stare dentro la mia pelle, avrei voluto scappare, liberarmi del mio corpo, essere leggera, ma si sa', non si può fuggire dalla propria carne.
Gli occhi si cristallizzarono mentre mi inducevo il vomito con due dita. Alla fine mi sciacquai la bocca, bagnai il viso e sfilai una mentina dalla borsa, mi sentivo meglio.
Sentii bussare alla porta, forse mi ero trattenuta più del previsto; sospiravo affannata, non sapevo il perché l'avessi fatto.
Appena aperta la porta, guardando dal basso verso l'alto, notai delle scarpe bianche, le conoscevo, risalii il corpo passando per il costume nero ed il petto nudo con una cicatrice sulla spalla. I miei occhi tardarono ad arrivare al viso, perché già avevo capito chi fosse.
E poi i suoi occhi castani a fissarmi le labbra.
«Sophie... co-come stai?», domandò.
«Tutto bene... tu, Edo?».
Edoardo si imbarazzava a rivolgermi la parola, rimasi colpita, non l'avevo mai visto in difficoltà.
«Bene. Ehm... senti, possiamo parlare?».
«Magari un'altra volta», risposi e gli lasciai lo spazio per entrare in bagno, mentre io mi dirigevo verso le mie amiche.
Con la coda dell'occhio vidi Davide con una ragazza dai capelli biondi, parlavano così vicini, così fastidiosamente vicini.
Lei se ne stava seduta sul muretto con le gambe aperte e lui davanti con una birra e la mano sulla sua coscia.
Si voltò e ci guardammo negli occhi, sorrise ed ammiccò.«Sophie, ma dov'eri finita?», domandò Francesca tirandomi con sé.
«Forse era con Edoardo», rispose Denise con l'espressione compiaciuta, con quegli occhi scuri taglienti e la bocca posta al lato  del viso, mentre tirava i lacci della felpa, la temperatura era scesa e lei aveva pensato di indossare qualcosa di più caldo.
«Con Edoardo? Ma no, ero in bagno»
«Vi ho visti baciarvi qualche giorno fa», continuò.
«Wow! Nuova coppia!», ironizzò Davide. Aveva sentito tutto, stavo per svenire.
«Piacere Jasmine!», disse quella bionda che stava con lui, poi sfilò una sigaretta dal suo pacchetto di Camel blu e la poggiò tra le labbra.
Non smetteva di ridere, guardava lui e si rivolgevano sguardi maliziosi.
Lui mise al collo le sue braccia come una collana e le sussurrò qualcosa all'orecchio, poi le prese la sigaretta dalle dita e si allontanarono per starsene da soli su due sedie a sdraio. Ero una sciocca ad assistere ancora a quello spettacolo.
Poi mi svegliai e rivendicai ciò che era mio.
Tolsi i pantaloncini di jeans davanti ai suoi occhi, lei era di spalle, lui nella mia linea d'aria.
Mi sedetti sul bordo della piscina con una sigaretta tra le dita. E fumavo mentre mordevo un unghia e lo fissavo.
«Non mi guardare così», pensai sottovoce, mi uccideva quello sguardo serio e mi faceva impazzire al contempo.
Un brivido si era imposto nella mia mente, era la prima volta che la mia testa s'innamorava di qualcuno, era così confusa che aveva riferito al cuore di occuparsene.
La mia mente stava facendo l'amore con lui, ero tremendamente eccitata, quelle venature sulla mano, il viso angelico sembrava quello di un ragazzino, e poi gli occhi verdi di un diavolo, lo sguardo intelligente ed il suo animo intrigante.
Mi arrivò un messaggio da parte sua con su scritto:
"Toglimi gli occhi di dosso" .
Sollevai lo sguardo e lo ritrovai a sorridermi da lontano, poi risposi:
"E tu smettila di giocare con quella puttanella".
Mi stavo avvicinando a loro quando sentii lei:
«L'altra volta è stato così bello. Andiamo da qualche parte, solo io e te».
Arrestai il passo, mi inchiodai al terreno.
Trattenni il respiro e mi voltai per andare via senza fare rumore.
Lo maledii.
Erano già le 02:00 di notte. Vidi Valerio allontanarsi dagli altri così gli domandai dove stesse andando.
«Un giro», rispose ed io ne approfittai per parlargli.
Salii in macchina e sentii lo sportello posteriore aprirsi.
«Aspetta Sophie!», esclamò
«Cos'è successo So?», mi domandò Valerio.
Rimasi con le braccia conserte, mi tremavano le labbra mentre cercavo di far uscire qualche frase dalla mia bocca:
«Niente Vale, metti in moto e accompagnami a casa», e così fece.
Valerio teneva gli occhi fissi sulla strada, racchiuso in un silenzio disagiante.
«No, per favore Valè non l'accompagnare», disse Davide.
«Ti vedi con quella!», urlai.
«No! È successo solo una volta prima del nostro bacio»
«Pensavo lo stessi facendo per farmi ingelosire, ma tu con quella ti ci vedi da prima e continui»
«Tu ti sei baciata con Edoardo», urlò.
Tremavo dal nervoso, non sapevo come ribattere.
«Ero ubriaca e poi è successo prima»
«Beh perché non me l'hai detto prima!», ribatté.
«Non era importante» -presi fiato ed aggiunsi- «Davide tu stai con un'altra! È ben diverso da un cazzo di bacio da niente! Ma come posso fidarmi di te?».
«Non sto con quella!», urlò ancora più forte di me.
Valerio teneva il volante con le braccia rigide, cercava di parlare per farci smettere di urlare, ma noi ci stavamo litigando come due bestie.
«Davide tra me e te non può funzionare», ripetei più volte buttandomi sul sedile e girando la testa verso il finestrino, la controluce mi faceva specchiare su di esso, la mia anima contorta era venuta fuori.
«Sono d'accordo», disse.
«Valerio accompagnami a casa, per favore», continuai.
Strinsi le mani sulle mie braccia, mi affondai le unghie e lasciai che si creassero dei lividi.
«No, non la devi accompagnare»,.
«Perché no? Voglio andare a casa».
Sospirò irrigidito: «Dobbiamo parlare prima».
«Non abbiamo niente da dirci», affermai placando la mia ira.
«Si invece. Valerio non la devi accompagnare!».
Sborsò il pacchetto delle sigarette e ne prese una, la poggiò tra le labbra, bagnata dalla stessa saliva che dava ordini.
«Voglio andare a casa ho detto».
Cercavo di trattenere le urla per quella buon anima di Valerio.
Vedevo dallo specchietto retrovisore i suoi pensieri che cercavano di sopirsi con la nicotina che si depositava nel suo sangue.
«No», affermò ancora.
«Valerio ferma l'auto, vado a piedi», ringhiai.
Obbedì, ci fermammo con una brusca frenata in quel posto isolato, non c'era nulla, solo l'asfalto grigio, le piante ai lati e i fari dell'auto ad illuminare tutto.
«Se scendi dall'auto tra noi è finita!», gridò.
Con forza chiusi lo sportello ed inizia a camminare a testa bassa, sul ciglio della strada, con il buio davanti ed una forte luce alle spalle.
«Vaffanculo Sophie. Tu sei così, io ti ho capita. Tu prendi e lasci come se niente fosse», sentii il rumore dello sportello e la sua presenza dietro me.
«Almeno non faccio sesso con gli altri»
Gli alzai il dito medio senza neanche guardarlo in faccia ed affermai:
«Ti odio Davide De Angelis»
«Ti odio anch'io stronza», rispose lui fermo alle mie spalle, mentre mi guardava andare via.
Sentii dei passi veloci alle mie spalle, ad un tratto le sue mani mi afferrarono e mi girarono verso di se, prese il mio viso con forza e ci baciammo passionalmente.
Iniziò a stringermi il culo così forte che la pelle usciva con pressione tra le fessura delle dita, io gli tiravo i capelli e lo ferivo con le unghie, gli graffiavo il collo lasciandogli i segni rossi, lui mi premeva le cosce, stava impazzendo.
Fronte contro fronte, entrambi con gli occhi chiusi, mi sussurrò:
«Non ho intenzione di farti andare via. Ma come te lo devo fare capire che tu sei tu e le altre per me sono niente».
La sua voce calda scorreva lungo il mio collo come un brivido, avevo la pelle d'oca e la sua mente a bramarmi l'anima.
Strinsi le palpebre, sentivo il suo respiro pesante sul mio viso, si sorreggeva su di me per il dolore alle costole.
L'alito di sigaretta mi si poggiava sulle guance, avrei voluto strappargli le labbra con un morso e perdermi per quel profumo che emanava il suo collo.
«Temo di impazzire anch'io per te, Davide», sussurrai.
«Io temo di essere già impazzito, Sophie».
Se solo fossimo stati soli lo avrei spinto contro il muro slacciandogli subito dopo la cintura, per poi mordergli il collo fino a farglielo diventare viola; avevo voglia di sudare con le mie cosce attorno al suo corpo e farmi scopare drogandomi di endorfine.
«Ehm... ragazzi! Avete finito?», domandò Valerio affacciandosi dal finestrino, era imbarazzato, impacciato anche a pronunciare le parole.
E ridere non era mai stato così bello, l'attimo prima ci puntavamo due pistole contro e quello dopo ci baciavamo come due pazzi sul ciglio della strada.
Non mi ero mai sentita così viva, insieme eravamo una bomba ad orologeria.

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