Capitolo 3

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Davide

Quando tornai a casa i pensieri sepolti iniziarono a riaffiorare, tutto ciò che avevo lasciato dietro me con la porta, dentro quelle quattro mura, ritornava, lo sentivo nell'aria, dal profumo che emanava l'essenza della casa, i brividi a fior di pelle per i ricordi... ogni tanto sentivo ancora dalla mia stanza delle urla, erano rimaste impresse come vecchie foto su delle polaroid.
La sera il letto mi inghiottiva, assorbiva tutto il mio sonno e lasciava la mia testa lucida per pensare all'accaduto.
Fissavo il soffitto strofinando con la mano il sopracciglio e pensavo, la rabbia si faceva strada e si insediava sotto la mia pelle.
La notte era un pugno nel petto e digiuno per il viso.
«Guardati le spalle amico», ripensavo a quelle parole di Kevin, mi tornavano spesso in mente, e mi chiedevo se avesse anche solo un vago collegamento con ciò che mi era successo.
Presi il telefono per chiamare Kevin.
«Pronto?», rispose.
«Tu lo sapevi», affermai, non smettevo di girare  a piedi nudi per la stanza, erano 04:00 di notte.
«Ma di che parli?». La sua voce era assonata, l'avevo svegliato, si sentiva dagli sbadigli che alternavano le sue parole.
«Di mio padre»
Sbattevo nervosamente i piedi sul pavimento, lasciavo le orme di rabbia sul legno traforato, mi sorreggevo in piedi toccandomi le costole, i miei respiri nervosi istigavano il dolore.
«Vestiti, sto passando a prenderti».
Staccai la chiamata e scesi nel vialetto per aspettarlo.
Mentre fumavo la sigaretta le dita mi tremavano, avevo bisogno di qualcosa di più forte; avevo il tempo di spegnermene una che subito dopo, con la cenere di quella vecchia, ne accendevo un'altra.
Iniziai a sentire in lontananza il rumore del motore Audi a cinque cilindri, a prima vista il cofano nero lucido e i led bianchi a risaltarmi le occhiaie.
Salii in macchina, lui era in pigiama, con le ciabatte ai piedi e i capelli neri scompigliati, si puliva spesso il naso con un fazzoletto riusato mille volte. Notai che la mandibola era guarita e che le cicatrici erano scomparse.
Sbadigliò con le mani strette al volante, poi si voltò e disse:
«Sapevo che aveva dei debiti, ma sapevo anche che li aveva già pagati».
Sbuffai nervoso: «Mia madre è da un po' che gli da soldi», poi aggiunsi: «Però non riesco a collegare te, con loro e con mio padre. Come lo sapevi?»
«Tuo padre è venuto a cercarmi... Aveva quel suo solito sigaro di carta marrone, puzzava d'alcol, sembrava ubriaco. Ha parlato solo di te. Non sapevo che fare, cercavo di farlo uscire fuori, aveva le lacrime agli occhi».
La luce dei lampioni rifletteva sul cofano e gli illuminava il viso che di tanto in tanto rigirava per guardarmi.
«G-gli mancavo?», balbettai, stentavo a crederci.
«Diceva di volerti morto, che avrebbe pagato qualcuno per farlo».
Ci fermammo in uno spiazzale.
Mandai giù quel groppo alla gola e pensai che infondo non c'era remissione per i suoi peccati.
«Mi ha minacciato di non dirti niente, ma in qualche modo avrei voluto fartelo sapere, poi beh...», continuò.
«Poi ci siamo picchiati», aggiunsi.
«Esatto!».
«Sono stato un vero coglione», mormorai.
«No, non è vero, anch'io avrei reagito allo stesso modo. Quella sera le droghe mi avevano fatto uno strano effetto», affermò senza distogliere gli occhi dal suo riflesso su quel finestrino.
«Posso dirti una cosa in tutta sincerità?», domandò.
«Certo, dimmi pure»
«Quella sera, quando ho detto quelle cose su Sophie... non le pensavo davvero»
«Si amico, ho capito, stai tranquillo».
Poggiò la testa sul sedile respirando nervosamente.
«No, no intendo davvero, non l'ho mai pensato».
Lo osservai stranito, non capivo perché lo stesse sottolineato così tante volte.
«Sono gay».
Rimasi a fissarlo alzando un sopracciglio, lui si imbarazzò.
Gli dieti una pacca sulla spalla e notai il suo senso di sollievo.
«Davvero in questo mondo c'è chi dice che non possiamo essere liberi di amare chi vogliamo? L'amore è libertà», dissi
«Davide De Angelis che fa discorsi sull'amore, ti sei innamorato?».
Emisi un risolino e mi lasciai andare con la nuca sul poggia testa.
Riaffiorò poi il ricordo di quei quattro che mi avevano massacrato, digrignavo i denti pensando a mia madre, mi sentivo morire al pensiero di mio padre.
«Cos'hai di forte?», domandai stringendomi le guance, da un lato non avrei voluto dirlo, ma dall'altro il forte bisogno di non sentire nulla mi bramava l'anima.
«Ti fai ancora?», mi domandò a sua volta.
«Ho smesso quando ho rischiato l'overdose»
«Ricordo quella sera, avevi litigato con tua madre, piovigginava se non erro», iniziò
«Erano le 03:00», dicemmo in coro.
«Ricordi proprio tutto?», domandai.
Sorrise ed infilò una mano nel porta oggetti.
«Fatti una canna», disse lanciandomi l'occorrente tra le mani.
«Le emozioni forti fanno fare brutte cose», continuò, poi si accese una sigaretta.
Lo stavo ad ascoltare quando iniziai a sgretolare la sigaretta sullo schermo del telefono.
«Sei svenuto davanti ai miei occhi, hai avuto le convulsioni... É impossibile da dimenticare, ho avuto paura»
Soffiai sulla punta fumante, sulla cartina che si ritirava con la fiammella, come il mare quando sta per arrivare uno tsunami.
«Io volevo solo smettere di pensare», sussurrai.
«Tua madre, fuori dal pronto soccorso, ci voleva a tutti morti, pensava fosse stata colpa nostra e del nostro stile di vita»
«Ho smesso di provare emozioni così forti, stai tranquillo».
Poggiò il mento tra le dita ed aspettò che gli passassi la canna.
«Il problema è il tuo modo di reagire, tu tendi all'autodistruzione».
Le palpebre mi tremarono, rimasi con il fiato sospeso.
Tirai un sospiro e gli chiesi di accompagnarmi a casa.
Varcata la soglia non esitai e mi diressi in cucina, tutto era quiete, non c'era neanche il frinire dei grilli, la luce gialla su di me mi faceva respirare un'aria cupa. Era tutto offuscato, rimasi immobile con le braccia fondate sul bancone al centro della stanza, i coniati mi tiravano giù le tonsille, il mio sangue bolliva.
Iniziai a cercare disperatamente dell'alcol in cucina: aprii tutti gli sportelli, svuotai il frigo, cercai nelle credenze, fino a quando non la trovai, era nascosta da due pacchi di tovaglioli, impolverata che Dio solo sapeva da quanto tempo fosse lì. Il vetro trasparente rifletteva la luce come un cristallo, il liquido limpido mi stava facendo battere il cuore.
Quei 70cl di vodka distillavano il mio sangue, la versai in un bicchiere ed iniziai a berla, non era mai stata così buona, ogni goccia appagava il mio fremito.
Mio padre beveva fino a sbroccare ed io che lo imitavo mi faceva sentire così dannatamente suo figlio.
La luce giallastra divenne sempre più forte, la testa mi girava e poi ancora un bicchiere scese come fiamma per il mio esofago, l'odore inebriava la stanza, ben presto non mi ressi in piedi, ero forse al quarto o quinto bicchiere, afferrai la bottiglia e mi sedetti in giardino.
La testa continuava a girarmi, i miei arti si erano immobilizzati, ebbi il risultato sperato, non pensai a nulla, solo al prossimo bicchiere da mandare giù in un respiro, e non l'avevo mai fatto, non avevo mai bevuto da solo per dimenticare qualcosa, più bevevo più mi sentivo uno schifo e mi maledivo perché non avrei dovuto bere, così riempivo i sensi di colpa con della vodka per dimenticarmi non solo ciò che mi aveva fatto del male, ma anche lo schifo che provavo verso me stesso per aver preso una bottiglia nel cuore della notte ed essermela scolata.
«Tu tendi all'autodistruzione», pensai ad alta voce.
Rimasi lì, ero sbronzo e non mi andava di guardare una nuova alba che sorgeva all'orizzonte, intanto fuori tutto cambiava ed io restavo uguale.
Poggiai la testa contro il muro di casa, per un attimo ebbi paura di sfondarlo con i soli pensieri, troppo taglienti, troppo pesanti. Tiravo i fili d'erba strappandoli dal prato e li lanciavo in aria, inghiottivo a fatica.
Respirai l'odore della terra e mi lasciai accarezzare da un sonno che non voleva arrivare, mi sentivo stanco, ma non riuscivo a dormire, era una tortura per il mio essere lunatico, per le mie emozioni che si modificavano con la mancanza del sonno, per la mia testa che ingigantiva i problemi.
Odiavo tutto ciò che mi circondava ed io avrei solo desiderato dormire.
I lampioni nelle strade iniziarono a spegnersi, l'umida brezza mattutina veniva in sella alla tristezza che si affannava al mio fianco.
«Vado a vomitare, ma giuro che sto bene, era solo un po' di malinconia attorcigliata alla gola», rimuginai.
Rimasi seduto per un po' davanti la ceramica bianca del cesso, a meditare sul fatto che avevo vomitato anche un po' della rabbia accumulata, poi presi coraggio e barcollai fino in camera da letto.
Mi lasciai andare con i vestiti sul materasso, la bottiglia vuota accanto e la cartina che avevo appena sfilato dal pacco.
Non avrei mai imparato la lezione, e mi domandavo cosa ci facessi con lei, che riusciva a dare lezioni di vita anche a quel ragazzino infondo che lanciava aeroplani di carta.
E mentre lei osservava il cielo ammirando la luna ed aspirando ai sogni, io ne chiudevo un'altra per dissolvere gli incubi.
Al mio risveglio la maglietta che avevo indosso era appiccicata alla mia pelle, come se fosse diventata parte di me, la fronte sgocciolava, la pelle si era inumidita e le vene erano gonfie in rilievo sul collo e negli avambracci.
L'unica ad essere rimasta asciutta era la mia bocca, che sembrava avesse inghiottito l'intero deserto del Sahara da quel labbro madido, screpolato.
Mi sgranchì la mandibola impastando con quel po' di saliva dal gusto acido che mi era rimasta, sollevai di qualche centimetro la testa e rimasi abbagliato dalla forte luce che entrava dalla finestra, mi facevano male gli occhi, così come la testa.
Mi sollevai con le braccia e mi pulii la bocca con il dorso della mano, durante la notte mi ero sbavato come un bambino. Sbadigliai un paio di volte mentre mi dirigevo in bagno per farmi una doccia con acqua gelida.
Spiccicai la maglietta dalla mia pelle, buttai via il costume e lasciai che per dieci minuti il mio sangue si sbollentasse sotto l'acqua ghiacciata. Non mossi un muscolo, rimasi in piedi con le braccia al petto, la pelle d'oca e dei lunghi sospiri per prendere fiato dopo quelle coltellate d'acqua così fredde.
A petto nudo mi lavai i denti, la mia espressione annoiata era la miglior maschera da poter indossare quel giorno, non ne avevo altre.
"Che fine hai fatto?".
Mi scrisse, ma io non mi ero dimenticato di lei, volevo solo non mi vedesse nei miei momenti peggiori, o sarebbe scappata come si fugge via da un mostro.
"Scusami... ti va se ci vediamo al solito posto?"
"Okay, a dopo".
Lasciai che il vento mi asciugasse i capelli, in quel di una giornata ventosa.
Una volta arrivato lì la aspettai seduto sui gradini, non c'era nessuno, solo il sole sopra la mia testa, ma rimase per poco, le nuvole lo avevano coperto. Era una giornata particolarmente grigia, sembrava che il cielo sapesse del mio umore e che per rispetto aveva ricoperto l'azzurro.
Lei era là, con quella sua camminata elegante e sicura, decisamente singolare per una ragazza timida, avanzava verso di me ed era bellissima.
«Hey», mi salutò come se niente fosse, così gelida che sembrava una sconosciuta sull'autobus che mi aveva rivolto la parola solo perché si era ritrovata vicino a me per la confusione.
«Hey», ricambiai e mi voltai per guardare altrove.
Era imbarazzante quel filo di tensione a sfiorarci la gola.
Restammo in silenzio per un po', lei era così pensierosa che mi stava facendo impazzire.
«Mi sento come se questa fosse la prima volta che ti vedo», dissi e lei si irrigidì.
«Anch'io ho detto la stessa cosa davanti lo specchio», sospirò e voltandosi aggiunse: «Inevitabilmente mi hai cambiata, ma è presto per dire se in meglio o in peggio, so solo che non riesco a smettere di pensarti...». Continuava a parlare, ma io avevo smesso di ascoltarla, mi ero immobilizzato alla vista del suo corpo che si avvicinava così pericolosamente a me.
«E se ti dicessi che sono ossessionata da te scapperesti via?».
Sfiorava le mie labbra, ma non le toccava mai, cercai di strapparle un bacio, ma la mancai per un soffio.
«Dove sei stato stanotte?», domandò.
«Stanotte?»
«Non rispondevi ai messaggi e di solito non lo fai mai».
Riflettevo, volevo tanto dirle la verità, ma allo stesso modo non la volevo spaventare con la mia vita così incasinata.
«Ti devo raccontare una cosa».
Iniziai a spiegarle tutto dal principio e lei mi stava ad ascoltare, non aveva intenzione di andare via, aveva negli occhi lo sguardo di chi non se ne va, di chi resta anche quando la realtà è raccapricciante.
Forse avevamo gli occhi uguali, poteva sembrare una ricca ragazzina viziata, eppure se ti soffermavi a guardarla davvero la sofferenza in lei non era assente.
«Ci penso da tutta la notte... non ho chiuso occhio», finii.
Mi persi nella mia testa e non riuscivo ad uscirne, credevo fin troppo a tutte le mie paranoie.
«Forse... non lo so. Mi odia e basta ed io odio lui».
Si limitava a fissarmi e a stringermi la mano.
«E tua nonna?», continuò la frase.
A mia volta le afferrai la mano con le mie, come quando d'inverno si cerca di scaldarle.
«Mia nonna? È come se fosse morta, la differenza è così sottile».
Si rattristì, non sapeva che dire e si vergognò, io le sorrisi per tranquillizzarla e la portai vicino a me per darle un bacio in fronte.
«Soffre di demenza e non mi va più di farle visita», affermai.
Tirai un sospiro a fatica, i miei occhi chiari non nascondevano il dolore, lo riflettevano con le venature rosse che solcavano l'orbita.
«Ecco perché ogni volta che venivo qui in estate tu non c'eri, è il primo anno che non ci vai?».
Feci di si con la testa e pensai a quanto avesse detto.
«Ci devi andare o te ne pentirai tantissimo»
«No-non riesco».
«Ci andiamo insieme, se ti va...».
E in quell'attimo ritornai a quel ragazzino di sette anni che si emozionava se gli davano un bacio, così fragile sul suo palmo che con un solo gesto avrebbe potuto rompermi.
«Si, mi farebbe molto piacere».
Restammo in silenzio, io a pensare e lei a fissare il cielo, le nuvole argento si specchiavano nelle sue iridi e, d'un tratto, quell'azzurro quasi cristallino si opacizzò.
«Scappiamo via da qua», sussurrò lasciandosi andare tra le mie braccia ed io l'afferrai.
Mi guardava dal basso ingrandendo quei due grandi occhi da bambina, mi si strinse il cuore per quanta verità c'era in quella frase, quanta voglia di andare via che io appoggiavo.
«Dove vuoi andare?»
«Ovunque, basta che sia lontano da me», rispose.
Con le mie braccia la strinsi al petto.
«Lascia a me la tua anima e fuggi via con il tuo corpo se ti va»
«Prendila se riesci», sussurrò con la sua seducente voce da donna, mi aveva totalmente destabilizzato.
«Ma come te lo devo dire che non mi devi sfidare se non vuoi che io vinca»
«E chi dice che io non voglio?».
Voleva giocare con le mie sensazioni, ma non aveva capito che ero io a sottomettermi al suo gioco, fino a quando mi sarebbe andato.
«Lo dice la tua testa quando la notte mi pensi e stringi le lenzuola, quando ti mordi le guance sperando di non innamorarti, quando credi che io sia totalmente impazzito per te solo perché sai usare bene le parole», le sussurrai a mia volta al suo orecchio, sentivo la sua pelle d'oca sotto i miei polpastrelli e i sospiri affannati che emetteva così rumorosi.
Mi feci strada con la mano sul suo ventre fino ad arrivare all'elastico dei pantaloncini, le tirai una stringa sciogliendole il fiocco, poi ritornai appena più giù dell'ombelico.
«Non puoi resistermi in eterno», le sussurrai ancora, con più rabbia e fermezza.
Piegò il collo nel lato opposto al mio viso così che le mie labbra potessero assaggiare la sua carne.
«Com'è possibile che con te mi dimentico dei miei problemi?», disse.
«Perché noi siamo quel posto dove andare insieme che è lontano da entrambi».
Si voltò per baciarmi, togliendo la mia mano che si era fermata sul suo ventre.
Stavolta non ci stavamo puntando la pistola contro, stavolta eravamo abbracciati, i nostri ventri si toccavano, il suo mento premeva sulla mia spalla. Stavolta le nostre pistole erano puntate all'esterno, lei a proteggere le mie spalle e io le sue.
Il cielo si chiuse, le nuvole grigie si scurirono e quell'odore piacevole di pioggia nell'aria mi dava l'impressione di essere tornato, anche solo per un attimo, in inverno, quando il freddo non è così terribile e il calore del camino soddisfa.
Guardò il cielo e spuntò un fulmine, mi strinse la mano involontariamente e rise poco dopo.
«Meglio che torno a casa».
Si alzò in fretta e se ne andò, lasciandomi ancora una volta inerme.
Iniziò a piovere a dirotto, mia madre restò colpita, si affacciò alla finestra spostando leggermente la tenda ed esclamò:
«Assurda questa pioggia in estate».
Tutti gli anni verso la fine di luglio pioveva e tutte le volte mia madre ripeteva quella frase, io la guardavo divertito ogni volta.
Spinse la tenda per far intravedere il giardino, poi si poggiò sul divano lamentandosi dei dolori alla schiena.
Avevo bisogno di una sigaretta, iniziai a tirarmi le labbra cercando di affievolire la voglia, ma quando lei venne in cucina per mettersi vicino lo sportello della finestra ed accendersi la sua solita Winston bianca mi venne l'acquolina in bocca.
La fissai senza neanche accorgermene, seduto sullo sgabello con le mani poggiate sul bancone, la tentazione di afferrare il pacchetto e sfilarne una era più forte che mai.
L'accese ed aspirò un tiro, poi mi lanciò l'accendino.
La guardai a bocca aperta e lei disse:
«Lì ci sono le sigarette, prenditela se la vuoi».
Non avevo mai fumato davanti a mia madre, le volevo dire di no o che non mi andava, ma sarebbe significato non fumare fino a quando non avrebbe smesso di piovere.
Accettai.
Aprii il pacco come se fosse un regalo, mi avvicinai a lei e l'accesi.
«Devi comprare le Marlboro, non queste», esclamai per quel piccolo filtro.
«Hey ragazzino, non ti mettere in testa che adesso te le devo comprare io», scherzò.
Mi abbracciò divertita e mi sbuffò il fumo in faccia, poi vidi la sua espressione tramutarsi e i suoi occhi scorrere sui lividi ancora evidenti, i punti erano caduti, ma le macchie dovevano ancora assorbirsi.
«Come stai tesoro?».
«Tutto bene... ehm».
Chinai gli occhi e come un flash mi tornò in mente tutto ciò che era successo, ma stavolta rimandai la rabbia ad un altro momento, volevo godermi ogni secondo di quella effimera felicità. Ero nel momento in cui il pendolo, che oscilla tra la tristezza e la noia, stava facendo una breve sosta sulla gioia.
«Vuoi parlare di qualcosa?»
«No, per ora no».
Mi toccò i capelli amorevolmente e rispettò i miei spazi, non fu per nulla invadente, per me fu un grande passo avanti. Stava creando attorno a se uno spazio tranquillo in cui rifugiarsi in caso di tempesta.
Finalmente l'aveva capito, aveva capito che tutte le volte che alzava la voce per forzarmi a dire qualcosa, tutte le volte che mi rimproverava e basta, senza mai ascoltare il mio punto di vista o senza prima avvertire e o spiegare il perché determinate cose non si fanno... non faceva altro che creare una distanza tra me e lei, nel peggiore dei casi irreversibile, costringendomi a dirle delle bugie o a sgattaiolare via di casa in piena notte. Mi lasciava irreparabilmente solo con la mia testa e i miei punti di vista, che magari da più piccolo erano sbagliati, ma quando vietava senza mai spiegare, nasceva in me una voglia incontrollata di fare l'opposto.
Per la mancanza di dialogo si creavano guerre a cielo aperto, continuando a ferirci a vicenda.
Era un cane che si mordeva la coda, un circolo vizioso che ci allontanava e ci bombardava, creando un crepa in lei e la mancanza di autocontrollo in me.
Restammo così, lei che mi raccontava della sua giornata ed io completamente a mio agio, con la sigaretta tra le labbra ed il sorriso sereno.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Apr 13 ⏰

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