Alfredo Romano / Le Langhe, il Nuto. Viaggio intorno a Cesare Pavese.

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Non l'avevo mai viste queste colline, eppure affacciato dal finestrino del treno prossimo a Canelli, non posso fare a meno di osservarle con gli occhi di Pavese. È come se anch'io vi avessi trascorso l'infanzia. E cosi mi appaiono familiari le loro forme di poppe e i vigneti sui fianchi, a ricordarmi grappoli rossi che fan venir le voglie e non solo di vini corposi. E poi questo verde fitto a giugno quando, nel mio lontano Sud, i campi sono gialli e ardono di stoppie. E l'acqua, tanta, dei continui torrenti e canali e un fiume (sarà forse il Belbo?) che fluisce lento sotto le rotaie. E cosi mi sono rivisto anch'io, nudo e ragazzo a fare il bagno tra quelle rive e da grande disteso sul greto con la pelle al sole, fumando la pipa sull'erba all'ombra dei canneti e, accanto, la carne soda di una donna che non è tua: è, come al solito, di un altro.

Alla stazione Ghione è venuto a prendermi con l'auto del padre. Son passati degli anni, ma è ancora rimasto quel ragazzotto contadino di quand'era soldato, col suo piemontese ostinato che non si capiva un accidente specie quando imprecava per qualche ingiusta consegna. In caserma, sapendolo di Canelli, m'era premuto familiarizzare con lui e quale sorpresa fu per me scoprire che suo padre, che faceva il bottaio, era un amico del Nuto, il protagonista del romanzo La luna e i falò. E quando a Ghione raccontavo di Pavese e del Nuto come personaggi mitici tra le colline di Canelli e di Santo Stefano Belbo, lui m'interrompeva sorpreso: «Ma chi, il Pinolo? Quello che fa le bigonce? Ma sì, sta sulla strada dì Canelli per Santo Stefano e ci passo tutti i giorni». Quei luoghi, quei personaggi che avevano per me i contorni del mito, erano per lui invece familiari: e io lo invidiavo per questo. Gli promisi così che un giorno sarei andato a trovarlo: avevo bisogno di sfatare quel mito; ma certi miti, lo so, non si sfatano, perché il mito, come insegna Pavese, è un aggancio alla vita.

 Ghione è un ragazzo cresciuto nella bottega artigiana del padre che, proprio come il Nuto, da giovane, a tempo libero, era stato un musicante: « Sai, cosa vuoi, sono venuto su dal niente e ora ho messo su un piccolo capitale che mi rende. Da giovane suonavo la tromba ed ero molto bravo, più bravo del Nuto che in fondo, suonava '1 clarinetto solo nelle feste e paesane, mentre io davo veri e propri spettacoli. Ho ancora con me le foto e i giornali che parlano di me e della mia tromba».

Probabilmente Pavese non avrebbe avuto proprio a cuore la presunzione del padre di Ghione, ma ce n'è tanta di gente così a Canelli che la musica ce l'ha nel sangue. E Ghione mi parla di bande e complessi perché qui quasi tutti hanno studiato musica fin da ragazzi e non è detto che certe serate in collina, nelle cascine, sull'aia, tra i vigneti in pendio, non si ripetano più con tanto vino, con tanto fumo, e musica, baccano e ragazze e l'alba che si aspetta sempre su queste colline dopo una notte di festa.

Ci soldo tante botti nella bottega di Ghione: nuove alcune, già pronte, il legno ancora fresco stretto da cerchioni di ferro fiammante; altre ancora da finire con le doghe non ancora curvate nella classica forma di pancia. Messe in fila cosi mi riportano ad Alì Babà e i quaranta ladroni. Ghione mi spiega come si costruisce una botte: ci vuole molto pazienza ma più dell'affezione. Tutto il giorno, con l'uso dei cunei, si batte sui cerchioni che stringono le doghe e non è detto che talvolta non ci scappi un dito. Per costringere le doghe alla forma di pancia, si usa porre all'interno della botte un'apposita gabbia di ferro che racchiude un fuoco che deve essere costantemente attivato. È Ghione l'addetto al fuoco e così alla sera vien fuori che sembra uno spazzacamino.

«Ti piace, Ghione, questo lavoro?».

«Diciamo che mi piace, forse altri non ne ho trovati. Certo lo faccio fin da ragazzo e mio padre, in fondo, non è poi tanto severo: si è più liberi e non è come stare dietro a un padrone».

M'incuriosisce Ghione e penso che forse non ha ancora una ragazza e glielo chiedo. Lui mi risponde che va ancora a ballare con gli amici e che ama il liscio anche se non è proprio il suo forte. La sua gente (e a lui piace molto frequentarla) invece lo balla seriamente, a tempo, e si fanno pure delle gare, con personaggi curiosi, strani e di una simpatia unica. Uno di questi per esempio è uno spazzino, un tipo magro, sulla quarantina, pelato, senza denti, ma dicono si faccia le più belle ragazze del paese. Per questo è molto invidiato, ma tutti ammettono che nessuno sa fare bene il caschet come lui. Il padre dello spazzino, poi, era un vero artista, sapeva costruirti di tutto: dagli orologi, agli strumenti musicali. Bravo sì, ma s'accontentava di miseri compensi e così non aveva mai fatto fortuna. Ma anche il figlio non è da meno in quest'arte dell'arrangiarsi: non è raro infatti vederlo in giro a raccogliere cartone dopo otto ore del suo lavoro. Lo chiamano Balaiaco, ma non è per via che sa ballare.

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⏰ Ultimo aggiornamento: May 14, 2011 ⏰

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