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Quella sera Noah avrebbe avuto la partita di Football e di lì a poco Tatiana, Eva e Margherita sarebbero venute a prendermi sotto casa.
Cominciai a sostituire il pigiama con i vestiti con cui sarei uscita e, nel frattempo, ripensai al regalo di Noah. Domani era il suo compleanno.
Non ero convinta di regalargli il mio album autografato dagli Arctic Monkeys ma sapevo che era la sua band preferita.

Quando arrivammo a scuola e ogni volta che mettevo piede lì, osservai quell'impianto sportivo e restavo incantata a osservare le tribune, le seggiole blu con lo stemma inciso sugli schienali, il tabellone dei punti,  gli striscioni che citavano "Stay positive. Test negative."
Noah oltre alle gare clandestine e la passione per la musica, c'era anche un'altra cosa che lo rendeva competitivo e, contro ogni pronostico, questa cosa era il football.
Era nelle sue vene, nelle sue corde. E gli rodeva e logorava dentro avere una cosa in comune con suo padre.

«C'è qualcosa che ti turba?» chiese Tatiana e si sedette accanto a me.
Quando mi voltai verso di lei, i suoi occhi erano puntati su di me.

<<Ultimamente ti trovo spesso distratta e distante. È successo qualcosa che ti ha turbata? Non parli più con me.>> confessò Tatiana.
<<oh, scusami se ti sei sentita messa da parte. Non era mia intenzione farlo.>> Dissi, poggiando una mano sulla sua spalla e sorridendole, con l'intento di rassicurarla.

Sembrava quasi che, forse, avesse finalmente alzato le mani insegno di resa dinanzi ai miei modi di fare, di pensare e di agire. Pareva aver improvvisamente rinunciato ad ostinarsi a tentare di comprendere fino in fondo se mentissi o dicessi la verità, come se sperasse che, in caso di necessità, io sarei corsa tra le sue braccia. In realtà contavo molto su me stessa, tanto che se davvero mi fossi trovata nuovamente sull'orlo del baratro ero certa che avrei fatto affidamento su me stessa, ma confessarle il perché dei miei continui silenzi non mi sembrava necessaria.
Proprio come non ritenevo fondamentale ammettere di non saper più comprendere se i sorrisi falsi che sfoggiavo nell'arco di un intera giornata fossero maggiori di quelli veri.

<<Per qualunque cosa io ci sono. Non sei sola. Ti voglio bene.>> La strinsi in un abbraccio e lasciai che le mie narici si riempissero del profumo dolce che la caratterizzava. Sentii le sue braccia avvolgermi e la sua testa affondare nell'incavo del mio collo.

Mi sentii come se lo stomaco mi si fosse annodato e provai un terribile senso di colpa, perché sapevo che la ragione della sua preoccupazione ero io. Ancora una volta le mie azioni avevano comportato conseguenze infelici, non sarei mai riuscita ad accettare di essere una persona tanto distruttiva e devastante per coloro che mi circondavano. Non importava che la mia psicologa avesse tentato fino allo sfinimento di convincermi che io non fossi tanto velenosa quanto credevo per gli altri, io proprio non ci riuscivo.

<<Anche io te ne voglio>>dissi, la mia voce così bassa che temevo che la mia migliore amica non mi avesse sentita.
Tuttavia, in seguito le mie parole, la sua stretta attorno a me si rafforzò dimostrandomi che, in realtà, aveva udito ciò che gli avevo detto.

Nell'istante in cui la nostra mascotte varcò l'impianto sportivo, uscì dal tunnel e mise piede sull'erba verde brillante del campo, i tifosi, formati per la maggior parte da studenti, si alzarono ed esultarono; tra quelli c'eravamo anche io e le mie amiche.
La squadra di Noah, i Tigers, entrò e
dopo aver intonato il nostro inno e finite le varie presentazioni, si misero in formazione e il gioco, dopo il calcio d'inizio chiamato kick off, prese il via.
La squadra attaccante aveva il possesso della palla e, sulla linea di scrimmage, diede il via all'azione di gioco. Avevano il compito di guadagnare dieci yard con quattro tentativi, in questo modo la palla sarebbe rimasta in loro possesso.

La squadra avversaria sembrava brava ma, la nostra squadra lo era di più. Un giocatore, il numero ottanta lanciò la palla in aria convinto che il suo compagno di squadra l'avrebbe presa ma la palla atterrò nelle mani di Kevin, il numero ventitré, e lui la passò a Maccal, il numero undici, che effettuò un lancio che coprì metà delle cento yard del campo, per finire tra le braccia di Edoardo, il numero tredici. Quella sfera ovale passò da un attaccante a un ricevitore, a un difensore per poi finire nelle mani di Noah. Fu  in grado di applicare alla palla uno spin, ovvero una rotazione, che consentiva di compiere una traiettoria stabile con la punta, per fare in modo che penetrasse meglio l'aria. Quando, alla fine del primo dei quattro tempi, Noah si sfiló il casco e si sedette in panchina sotto la pensilina, il loro coach iniziò a istruirli.

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