IV. C'è tutto il mondo (tra la culla e la fossa) - Parte 1

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Il centro di Napoli è una finestra sulla vita: mutabile quanto un caleidoscopio in scapestrato avvitamento che non si sofferma mai troppo su un singolo colore e accompagnato da una musica d'umanità vibrante e imprevedibile, chissà come mai in dissonanza.

In quanto tale, è inevitabile che si affacci anche sulla morte.

Ricciardi non ama gironzolare troppo a lungo tra quei vicoli stretti e affollati, poiché sono infestati da spettri in ogni angolo visibile o meno. Gli è capitato di passarci di notte, quando le strade sono semi deserte. In quelle occasioni, vi era comunque un brusio di voci ben udibile in alcuni punti: quelli più bui, più trascurati, sulla bocca nera spalancata dei bassi o dalle chiostrine fatiscenti stritolate dai palazzi.

Quei fantasmi, tuttavia, non sembrano mai sostare troppo a lungo nell'aldiquà; almeno, non tutti. Forse quell'impermanenza è dovuta al viavai costante dei vivi che finisce per sfaldarne i contorni annacquati, al contrario di quanto accada in un luogo riparato come una casa; o, forse, perché le ingiurie che hanno subito vengono presto vendicate sotto guisa di giustizia, visto che quella vera di rado riesce a raggiungere i quartieri popolari.

Ricciardi è consapevole di quel transito continuo visibile solo a lui, dacché ricorda quasi tutti i morti che incontra. Infatti, mentre si fanno largo tra la calca di San Gregorio Armeno, attraversano Piazza San Gaetano gremita per la messa e imboccano Via dei Tribunali, nota subito l'assenza della giovane donna col collo spezzato, che ricorda di aver visto sugli scaloni di San Paolo Maggiore, appoggiata a una delle colonne greche della facciata.

A pochi metri da lei, è comparso invece un vecchio vestito di stracci, seduto e stretto in una coperta, la cui cantilena incessante non riesce a sentire. Marchi violenti di percosse gli segnano il volto incartapecorito.

Se lo chiede di continuo, quali siano i meccanismi che regolano la sua maledizione, pur conscio di non poter mai trovare risposta certa. A volte, si pente di non aver chiesto mai nulla a sua madre, d'essersi tenuto quel segreto in cuore anche con lei. Ha ancora congelata nelle retine la sua ultima immagine: diafana, il volto illuminato da un sorriso triste, mentre percorreva il corridoio della casa di cura.

Un monito, quello, a tenersi il suo segreto ben chiuso a doppia mandata, celato agli occhi di chiunque.

Da quella mattina, gli interrogativi che lo perseguitano ogni giorno sono diventati più insistenti, feroci nella loro ripetitività: il pensiero corre sempre alla voce incorporea che ha lasciato sottoterra, forte a tal punto da raggiungerlo fino a casa sua, nei suoi sogni e incubi.

Si rende conto di aver rallentato il passo solo quando Maione si ferma poco avanti a lui, voltatosi per assicurarsi di non perderlo nella fiumana accesa del primo pomeriggio. Ricciardi distoglie lo sguardo da quello vitreo del vecchio e si affretta a raggiungere il brigadiere, le mani sprofondate nelle tasche del soprabito.

«Tutto bene, commissa'?»

«Dovremmo indagare su quelle opere di carità di Gigliolo,» dissimula lui. Accenna col mento alla basilica e trova suo malgrado gli occhi del morto ancora a fissarlo. «Quegli aiuti agli invalidi e agli orfani di cui parlava la moglie.»

«Pensate che ne caveremo qualcosa di utile?»

Ricciardi lancia un'ultima occhiata al vecchio, al suo volto livido, chiedendogli perdono con lo sguardo per non potergli dar pace. Riprende a camminare al fianco di Maione, facendosi largo tra carretti e somari carichi di merce diretta al mercato di Porta Nolana.

«Potremmo almeno capire se aveva qualche conoscenza in quegli ambienti. Da quanto è risultato dalla moglie e dai domestici, pareva un uomo piuttosto solitario.»

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