VIII. Chi per strada va (per strada muore) - Parte 1

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          La strada verso il Rione Sanità è ripida, costellata di capannelli di persone intente a chiacchierare sulle soglie dei bassi e nelle rade piazzette stritolate tra gli edifici; danno l'idea di sparuti fiori di campo spuntati chissà come in mezzo al grigio-giallo della pozzolana e del tufo. Napoli è una città che s'accende del colore della gente e delle case, più che della natura, se non per il blu intenso del Golfo che la accarezza.

Ricciardi, quando è troppo immerso coi pensieri nei meandri della propria testa e col corpo nei vicoli asfissianti dei quartieri vecchi, con lo sguardo bloccato da palazzine alte che mangiano il cielo, si trova a rimpiangere le vaste vedute verdi e ondeggianti del suo Cilento, dove la vista spazia a volte sino allo scintillio del Tirreno, una linea sottile che orla l'orizzonte di satin cangiante nelle giornate più limpide.

Non sa che cosa darebbe, ora, per potersi arroccare sul balconcino della residenza dei Malomonte, quello aggettato sulla vallata, e poter seguire i declivi boscosi delle colline e le pareti scoscese dei calanchi sino a perderne i contorni e scordarsi a cosa stesse pensando.

Si sente addosso più di uno sguardo, mentre percorre quelle viuzze in un saliscendi continuo. In un certo senso, è un bene che abbia così tanti pensieri ad affollargli la mente da avere a malapena spazio bastante per curarsi di cosa ne pensi la gente di un distinto cittadino che va, secondo loro, a sollazzarsi in un quartiere di prostitute e femminielli.

Supera la facciata a sbalzi di Palazzo Sanfelice, attraversa Discesa Sanità e percorre il tortuoso tragitto fino al basso di Bambinella senza quasi aver contezza dei propri passi, lo sguardo fisso su un punto invisibile, sfocato.

Si fa largo tra comari avvizzite con fazzoletti sdruciti che lo squadrano con rimprovero e ragazze dalle vesti appariscenti che lo invitano oltre gli usci con gesti lascivi delle mani; svicola tra gruppetti allegri di marinai in permesso di rientro da una giornata di bagordi; aggira asini carichi di mattoni e manovali imbiancati dalla calce; evita, domando l'istinto di passarvi in mezzo sprezzante, una squadraccia di camicie nere che avanza con un gran pestare di stivali e menare a vuoto di manganelli.

Ai margini della visuale, qualche fantasma, qualche voce che si leva flebile al suo passaggio; mendicanti e prostitute e scugnizzi di strada. Gli ultimi, i dimenticati. Non guarda nessuno negli occhi, né morti né vivi.

In testa, la conversazione con Madre Filippa si ripete ciclicamente. Ogni volta che la ripercorre, quella sensazione marcia alla bocca dello stomaco si intensifica. Rivede gli occhi vispi e infantili che lo spiano da un uscio, quel "non è lui" che gli suona sempre più chiaro, che è sempre più convinto d'aver udito; poi, lo sguardo atterrito di Suor Agnese, prima di sussurrargli quell'unica frase.

Cercate il Munaciello. Quel nome continua a tornare e a tornare, una leggenda sepolta che riaffiora a pelo d'acqua in mille voci diverse e discordanti, concretizzandosi infine in una persona reale. Mentre la voce di Annina continua a gridare sottoterra, chiedendo a lui, e solo a lui, di farle giustizia.

Quando bussa alla porta di Bambinella, ormai alle quattro passate, deve trattenere la forza, tanta è l'inquietudine che lo afferra dall'interno.

«'Tiene mmano, mo' vengo!»

La sua voce squillante si leva come una tromba all'alba, seguita da dei passi ciabattanti. Ricciardi si guarda le spalle, stringendosi nel soprabito come a mimetizzarsi col grigio circostante. Sulla minuscola piazzetta compressa tra le palazzine, c'è solo una coppia di lavoratrici intente a fumare e, sospetta a giudicare dagli sguardi impertinenti nella sua direzione, a sparlare di lui e dei suoi supposti gusti.

Non si sente a disagio per il fatto di essere lì, di per sé, quanto delle voci che ciò potrebbe suscitare. Ammette che farsi vedere alla porta di un femminiello non è una mossa molto più intelligente che andare da Bruno in piena notte o farlo dormire a casa sua.

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