Capitolo 1.

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Osservò l'edificio davanti a sé, strizzando gli occhi nella penombra della notte illuminata solo dal chiaro di luna. Aveva impiegato giorni interi e notti insonni per trovarlo e, ora che si trovava di fronte a esso, cominciava ad avere qualche ripensamento.

Non era paura, non più almeno.

Qualche anno prima se la sarebbe letteralmente fatta addosso e sarebbe salito in macchina, avrebbe messo in moto e sarebbe scappato il più lontano possibile senza mai guardarsi indietro. Qualche anno prima, forse, lo avrebbe dovuto fare.

Qualche anno prima, quando avrebbe potuto avere una vita normale, una possibilità che ora era solo un vago ricordo e, a volte, anche un desiderio. O un rimpianto, anche se preferiva non soffermarsi troppo su quel pensiero.

Odiava la sua vita, fatta solo di morte e distruzione. Nonostante le vite che aveva salvato e che continuava a salvare, una parte di lui non riusciva a ritenersi soddisfatta.

Era stato lui a voler rinunciare ad avere una vita normale e, anche se sapeva a cosa sarebbe andato incontro, la solitudine non lo aveva mai lasciato in tutti quegli anni, neanche per un secondo. La sentiva nel suo cuore ogni volta che si avvicinava al bersaglio, la sentiva nei pochi minuti prima di addormentarsi in quella squallida auto e mentre si concedeva poche ore di sonno prima di ripartire, e la sentiva ogni volta che si chiudeva quella porta alle spalle.

Comunque, aveva imparato che la paura era una debolezza e che se voleva continuare a svolgere la sua missione non poteva lasciare che lo consumasse. Ancora oggi quando varcava la soglia di un edificio buio, quando affrontava qualcosa di terribile, quando da solo si imbatteva nell'ennesima sfida sentiva il cuore battere all'impazzata, ma non era più paura.

Era rabbia, frustrazione e desolazione. Era una faccia della stessa medaglia, quel dannato rimpianto misto al senso di colpa perché sapeva che ciò che stava facendo fosse importante. Sapeva che aiutare gli altri fosse importante, e appagante, ma a volte non poteva fare a meno di chiedersi chi avrebbe aiutato lui quando sarebbe arrivato al limite.

Fino a quel momento aveva imparato ad aiutarsi da solo, a rialzarsi e ricucire le proprie ferite - letteralmente - senza l'aiuto di nessuno e ad amarsi quel tanto che bastava per sopravvivere.

Non si amava davvero. Ogni volta che si guardava allo specchio vedeva riflesso il ricordo di un uomo che ormai non esisteva più, e che forse non era mai esistito, un uomo che preferiva ripetersi che avesse scelto lui di vivere quella vita anche se la realtà era che con il tempo aveva imparato a odiarla. E si sentiva in colpa per questo perché, nonostante tutto, aveva salvato così tante vite da aver perso il conto ormai.

Uno squillo lo risvegliò dai suoi pensieri e scosse la testa, scacciando via qualsiasi cosa potesse essere una distrazione. Prese il telefono e lo sbloccò, imprecando a denti stretti perché il messaggio che aveva ricevuto era una distrazione. L'ennesimo messaggio ricevuto e a cui lui non avrebbe risposto. Non che non volesse farlo, ma non poteva.

Quella era la seconda faccia della medaglia, la voglia di rispondere ma la consapevolezza di non poterlo fare, di non poter concedersi e concedere di più e di non potere né volere trascinare nessuno nella sua fottuta vita. Mentire era la cosa più difficile, anche se ormai era diventato un esperto, ma non per questo non si sentiva in colpa. O almeno, si sentiva in colpa ma solo quando era costretto a mentire a lui.

Sospirò e lanciò il telefono sul sedile del passeggero, chiuse gli occhi e lasciò cadere la testa contro il proprio. Inspirò profondamente, reprimendo emozioni che non poteva permettersi di provare, prima di aprire gli occhi e afferrare il suo diario dal sedile accanto. Non era proprio il suo, era di suo padre, ma lo aveva lasciato a lui nella speranza che potesse trovare una guida quando era costretto ad affrontare qualcosa in cui non si era mai imbattuto, come sarebbe accaduto quella stessa notte.

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