Capitolo 8

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Astana. Difficile dire a cosa assomigliasse la capitale del  Kazakistan. Una città utopica? Una realizzazione di metallo, 

vetro e cemento? O ancora: una Dubai sotto zero? Un incubo 

post-sovietico? Questa Shangri-La del XXI secolo, dalle soluzioni 

architettoniche avveniristiche, era stata edificata dal visionario 

capo, il presidente Narzabaev. La popolazione, che godeva più di 

700.000 abitanti, poteva respirare, malgrado le basse temperature, 

un clima ricco e vibrante, grazie alle ricchezze sotterranee come il 

petrolio, gas naturale, uranio, manganese, rame, oro e carbone di 

cui era dotato tutto lo stato del Kazakistan. Imponenti strutture 

come “il globo d’oro”, disegnato dall’architetto Norman Foster, si 

ergevano nel viale centrale dell’immaginifica città, simbolo di un 

potere voluto come assoluto e applicato in modo celato ma efficace 

su tutta la popolazione del posto e per intenzione, finanche oltre 

confine. Il presidente dall’alto dell’ovulo osservava il panorama 

della città, e poneva i propri occhi e la propria immaginazione 

su ciò che era impressa la sua mano. Ricca di simboli sincretici, la  “psicometropoli” – così soprannominata dall’architetto Anthony 

Vidler – era stata eretta con la volontà di stupire e affascinare, 

soprattutto ammonire; infatti, con il suo nome kazako stava a significare “il luogo dove si prendono decisioni” e quel giorno il 

presidente doveva prenderne una molto importante.

Parzialmente calvo, panciuto e con le guance paffute, Narzabaev era un uomo ormai sulla ottantina. Ma con l’andare degli anni 

non perse mai la sua “personale” lucidità e lungimiranza che 

lo fecero poi rieleggere a grandi voti durante le elezioni del 

2015. Abitualmente sicuro di sé, quel giorno il suo temperamen-

to venne a incrinarsi, anche se di facciata non lo faceva vedere. 

Per scaricare la tensione, chiese al cameriere della sala privata 

dove si trovava una bottiglia di cognac d’annata e una tagliata 

di Wagyu. Quando gliela portò non poté non notare come le luci 

dorate, riflesse dai pannelli ricurvi dello scheletro strutturale, si  specchiassero sulla portata a base di carne che aveva ordinato. 

Un insieme di odori speziati e colori sgargianti come il rosso magenta e striature cremisi erano il nucleo del suo pasto. Affamato, 

ben volentieri si sedette, optando per un tavolo sempre vicino 

alla vetrata della struttura. Non voleva perdere di vista ciò che 

aveva costruito. Osservare la città e immedesimarsi nelle persone comuni in quel momento sembrò un ottimo palliativo del 

suo umore altero. Ma come mai un presidente di uno Stato così 

dovizioso e florido, grazie al suo operato, doveva trovarsi in uno 

stato d’animo tale? È vero, un personaggio politico in una posizione come la sua è sempre al centro di schermaglie e alterchi 

capaci di mandare in crisi anche uomini del suo timbro, ma il 

motivo era molto più grave delle solite vicende che possono per-

cuotere il benessere comune di un paese. Infatti guardando fuo-

ri non riuscì a rasserenarsi con la visione che aveva dirimpetto.  Solitamente era rallegrato dalle giornate solari e animate della 

capitale. Sulle piazze e nei vicoli della città durante le feste si 

ballava e si cantava, ma si raccontavano anche storie molto simili 

a cronache dell’orrore in cui esseri di altri mondi e dimensioni  prendevano il posto degli umani, in preparazione di un futuro 

prossimo a loro immagine. Molti credevano fossero delle favole. 

Il presidente invece era consapevole della veridicità di questi racconti; a dirla tutta, lui era diventato un tramite con questi esseri. 

E all’incontro segreto che di lì a poco si sarebbe tenuto doveva 

dare informazioni che ancora non aveva. Tant’è vero che era lì, 

lontano da occhi indiscreti, mentre sorseggiava a fatica un bic-

chiere di vino in attesa dei suoi agenti, sperando in un report 

dall’esito positivo.

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