CAPITOLO 38

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Amelie pov

Sono passate sicuramente più di due ore da quando l'ho visto allontanarsi. Il telefono continua a squillare, ma non ho la forza nemmeno di prenderlo. Sono inerme, distesa sul mio letto, con i vestiti ancora bagnati.

Penso di aver finito anche le lacrime, perché dai miei occhi ormai non esce più nulla. Il soffitto è così buio, proprio come il resto della stanza. Nemmeno la luna illumina.

Arriva l'ennesimo squillo, decido di rispondere. Il numero non è registrato, ma non ci faccio molto caso e rispondo senza pensarci ulteriormente.

Quell'uomo ha balbettato qualcosa, ospedale, Sebastian e incidente. Non ho manco avuto tempo di elaborare le parole che mi sono precipitata in quella struttura. Non voglio capire, o peggio, non voglio ammettere a me stessa che quella nostra litigata è forse l'ultimo momento passato insieme.

Fa male ammetterlo, fa male entrare in quell'ospedale.
Ma appena varco le porte di vetro, l'unica cosa che penso è di trovarlo. Di andare nella sua stanza e vederlo con i miei stessi occhi.

Mi avvicino velocemente al bancone dove ci sono le infermiere. «Sebastian, Sebastian Müller», loro mi guardano per qualche secondo. Forse è dovuto al mio aspetto; sembro una ragazza trasandata, i capelli umidi e arruffati, un vestito nero ormai sgualcito e dei tacchi che si reggono a malapena.

«Dio santo, non state lì impalate», dico mentre le due donne non si muovono dalla sedia. Ho il nervoso a mille, le mie emozioni sono totalmente scombussolate.

«Signorina Amelie?» una voce maschile mi richiama, facendomi girare. È la stessa voce che mi ha parlato al telefono. Annuisco avvicinandomi a l'uomo alto di mezza età. «È nella camera 27» ha un'aria triste, prima di continuare ha bisogno di una pausa.
«Nel reparto rianimazione» conclude.

In quell'istante, in quel preciso istante, mi crolla il mondo addosso. Sento le mani tremare, mentre le lacrime ricompaiono feroci nei miei occhi. Seguo il dottore fino alla fatidica stanza numero 27.

Quando mi trovo davanti alle due porte color beige, le gambe iniziano a cedermi; non ho il coraggio di aprirle, non ho il coraggio di vedere in che stato è.

«Signorina, se vuole può...» lo blocco. Non posso aspettare un singolo minuto di più, ogni attimo è importante. Devo vedere Sebastian. «Posso entrare?» lui annuisce, e la mia mano scivola lenta verso la maniglia.

La porta si spalanca e i miei occhi inquadrano subito il corpo di Sebastian. Ha un tubo per respirare, il corpo non è ingessato, e il volto è poco sfregiato.
«Non ha avuto molte lesioni esterne», mi informa il dottore, mentre mi avvicino lentamente al lettino.

«Ma ha preso una grande botta sulla testa»; solo l'udire quelle parole mi procura un tremolio.

È colpa mia. Se non l'avessi invitato a cena fuori, forse tutto questo non sarebbe successo.

Gli sfioro la mano, è troppo fredda, perché è fredda?

«Allontanati da mio figlio», la voce potente del padre risuona nella stanza. Mi giro vedendolo entrare con passo svelto verso il lettino dove giace il figlio.

«È colpa tua, mio figlio è finito così a causa tua», mi urla contro. Mi allontana da Sebastian, ora è lui ad accarezzargli la mano.

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