XII. Una vendetta, una speranza (o forse solo un po' d'amore) - Parte 3

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          Livia è fasciata da una tuta intera di un tenue color sabbia, che ricade in un paio di pantaloni larghi e stretta in vita da una cinta brunita. A ravvivarla, stemperando il suo aspetto severo, un foulard di chiffon scuro annodato al collo, con motivi floreali di un rosso acceso che le risaltano le labbra.

Ricciardi rilascia un respiro asfittico: potrebbe considerare una vittoria anche solo il fatto stesso che lei abbia acconsentito a riceverlo a quel modo, senza alcun preavviso. Livia, non appena schiude le porte nel salone e lo vede, si blocca con una mano ancora premuta sul legno, gli occhi sgranati.

«Luigi,» le sfugge in un refolo, prim'ancora che lui possa salutarla. «Che cosa ti è successo?»

Gli si fa incontro svelta, per poi frenarsi a un passo da lui, come ricordandosi che, tra loro, c'è una distanza nuova e insondabile che deve sforzarsi di rispettare. Non frena però in tempo la mano che già è corsa alla sua guancia e che sfiora impalpabile il bordo del cerotto, poi i segni lividi e sensibili sul collo, quando nota anche quelli.

Ricciardi non si ritrae, accettando in silenzio quel gesto di premura con un guizzo di calore: non è scontato essere trattati come normali essere umani, per qualcuno col suo marchio addosso.

«Avevi ragione sul fatto che fosse un caso "delicato",» risponde diretto, sollevando appena un angolo delle labbra in un sorriso troppo sfacciato per come si sente. «Avrei dovuto prestarti ascolto.»

I lampi d'angoscia che le balenano sul volto e nelle iridi castane sono rapidi, ma innascondibili. Esita, bloccando le parole dietro le labbra, le sopracciglia eleganti che s'inclinano donando ai suoi occhi una luce pericolosa.

«Falco,» esala poi, la voce scossa da una sorda vibrazione di rabbia.

«Lui e qualche aiuto. Tre contro uno, come mi sarei aspettato da loro,» puntualizza lui, con asprezza. Poi deglutisce a forza, sfuggendo il suo sguardo e rivolgendolo il proprio in basso: «Lo sanno.»

Non ha bisogno di specificare alcunché, né vorrebbe mai: è fin troppo chiaro di cosa stia parlando. Livia fa aderire del tutto il palmo alla sua guancia, la fronte liscia che si corruga in grinze severe, le labbra tinte assottigliate:

«Non gliel'ho...»

«Non ho mai dubitato di te,» la interrompe all'istante, riagganciando gli occhi ai suoi. «Mai, Livia. Non sono qui per questo.»

Posa una mano sulla sua e la riaccompagna in basso, facendola scivolare via dal suo volto; non perché il contatto lo infastidisca, ma perché gli sembra una crudeltà concederglielo. La trattiene tra le sue per un istante, tiepida contro la sua pelle ancora fredda dall'esterno, per poi lasciarla del tutto.

Livia segue il movimento, le pupille irrequiete che viaggiano dal suo volto, ai lividi, alla sua mano, senza però opporsi. Lancia un'occhiata fulminea all'enorme salone in cui si trovano, come prendendo atto solo ora di dove si trovano. Irrigidisce il viso, ricomponendosi.

«Vieni,» lo invita, sospingendolo con una mano sulla schiena verso la scalinata più vicina, appena oltre le porte. «Meglio parlarne in un luogo meno esposto. Clara, sali anche tu,» si rivolge poi alla cameriera, rimasta in diligente attesa vicino all'ingresso.

Ricciardi comprende quella precauzione, ma non è entusiasta nel dover parlare con Livia, presume, nella stanza dove ha passato una notte con lei, ormai quasi un anno fa. Come leggendogli nel pensiero, però, la camera in cui lo guida è un'altra, un semplice salottino privato.

Livia ordina a Clara di tenersi a un'estremità del corridoio, dove possa sorvegliare la porta senza origliare, nemmeno inavvertitamente, e di avvisarli se qualcuno dovesse tentare di avvicinarsi. Clara annuisce in silenzio, senza apparire affatto turbata dalla cosa; Ricciardi, inquieto, deduce che non sia la prima volta che le impartisce disposizioni simili. Livia chiude la porta dietro di sé, gettando un' ultima occhiata schiva al corridoio.

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