Illusione

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    Un manipolo di orchi strisciò lungo le pendici degli Ered Lithui*, celato dal favore delle perpetue tenebre di Mordor.
Anche dopo la distruzione dell'Unico Anello, il Monte Fato non aveva smesso di innalzare la sua alta colonna di cenere e lapilli e continui incendi devastavano quel poco di sterile vegetazione che ancora resisteva nella vasta pianura del Gorgoroth.
L'orco a capo del gruppo fermò bruscamente i compagni, poco più di una disordinata mezza dozzina: -Fermi, stupida feccia. C'è qualcuno.- Si appiattirono contro la pietra gelida.
Per molti giorni avevano seguito gli spostamenti dell'immenso esercito nero che aveva preso vita in quelle montagne e con i loro occhi avevano visto le carcasse putride delle passate legioni di Sauron alzarsi in piedi e radunarsi come diligenti formiche silenziose. Quando l'esercito aveva infine preso a marciare verso Ovest, il piccolo gruppo aveva colto l'occasione per scoprire chi dimorasse ora in quei luoghi maledetti.
L'orco in testa all'improvvisata compagnia si sporse verso la piana sotto di loro, grugnando: -Ci sono guardie. Guardie non morte.- Gli altri ringhiarono rumorosamente e lui fu costretto a zittirli a suon di spintoni: -Aggiriamoli, cani schifosi! Non dobbiamo farci vedere. Ricordate cosa è successo a quegli stupidi che sono arrivati fino a qui?-
Uno degli orchi dietro di lui, piccolo e deforme, lanciò un'esclamazione con voce rauca: -Nessuno è tornato indietro!-
Il capo gli tirò un violento pugno sul grugno, stizzito: -Sta zitto, verme! Non urlare o ci sentiranno.-
Prima che potessero azzuffarsi nuovamente, un rumore improvviso alle loro spalle li fece sobbalzare. Ovviamente, le guardie non morte scorte poco prima aveva avuto tutto il tempo di accorgersi di loro, spostarsi e raggiungerli.
Gli orchi brandirono le loro armi arrugginite con più ferocia che mai ma, dentro di loro, sapevano bene che, contro i due enormi moruruk** non morti, potevano fare ben poco. Questi parevano fissarli dall'oscurità dietro i loro elmi neri e, nel corpo fetido, la carne marcita lasciava intravedere le ossa grigie. Gli orchi si lanciarono all'attacco, urlando come ossessi.
In breve, il capo dello sfortunato gruppo si ritrovò a guardare i compagni squartati cadere a terra, attorno a lui.
L'uruk più grosso gli afferrò la testa, sollevandolo come se non avesse peso e l'orco ebbe solo il tempo di constatare che dietro l'elmo nero di quella creatura non vi fosse altro che un teschio coperto di melma, prima che questo gli spezzasse l'osso del collo con un violento schiocco.
Impassibili, i moruruk legarono metodicamente le caviglie dei cadaveri e li trascinarono lungo lo stretto sentiero che conduceva alla vallata, sul fianco della montagna. Qui, svariate miglia sopra la valle del Gorgoroth, immense rovine nere si stagliavano contro l'orizzonte nebbioso. Guglie e bastioni un tempo di dimensioni mastodontiche, ora giacevano a terra come giganti addormentati, avvolti da una nebbia perenne e densa di gelida inquietudine. Era il lascito di un regno caduto trent'anni prima, ma il ricordo era ancora vivido nella mente degli Uomini dell'Ovest: Barad-dûr, la Torre Oscura.
I due moruruk attraversarono l'ammasso di rovine velocemente, giungendo dinanzi ad una grossa spaccatura nel muro di pietra nera, sorvegliata da altri orchi non morti. Questi li lasciarono entrare, silenziosi e rigidi come statue.
All'interno, le gigantesche rovine buie avevano l'aspetto di un intricato labirinto, che scendeva svariate miglia sotto terra.
Quando la discesa sembrò diventare infinita, una luce tremolante illuminò le pareti di un corridoio largo e spoglio. I due uruk si diressero diligentemente verso essa e sbucarono in un'ampia sala dalle pareti nere, dove molte delle colonne portanti erano adesso spezzate e crollate sul pavimento di pietra.
-Altri volontari pronti ad unirsi a noi, che piacere.- Commentò sarcasticamente una voce profonda, che riecheggiò nelle volte del soffitto. Un grosso candelabro faceva luce su una scrivania lucida, alla quale sedeva una singolare figura curva, avvolta in un mantello dall'ampio cappuccio scuro.
Questa si alzò quasi a fatica, sorreggendosi su un bastone dalla cima nodosa. Arrivò lentamente vicino ai due moruruk, che non mossero un passo, nemmeno quando si chinò sui cadaveri, prendendo a esaminarli.
Dopo una breve ispezione, la figura afferrò uno dei tanti sacchettini dall'aria consunta che pendevano dalla sua cinta e, con le dita secche e sottili, tirò fuori un minuscolo sassolino traslucido. Con metodo, lo schiacciò nella carne dell'orco più grosso, in profondità: subito, questo spalancò gli occhi vitrei, imitato all'istante da tutti gli altri cadaveri.
-Alzatevi ora.- Ordinò la voce profonda dell'uomo incappucciato.
Questi si tirarono in piedi come marionette e l'altro batté loro una pacca sulla spalla, amichevole: -Bene, bene! Andrete a guardia di questo luogo. Sono desolato, ma ormai gli altri sono partiti senza di voi. Suppongo lo sappiate già comunque, o non vi sareste azzardati ad avvicinarvi tanto.-
Gli orchi non risposero.
Certo non potevano rispondere, essendo morti.
Eppure, ogni volta lui si prestava a quel futile giochetto, aspettandosi davvero una qualche battuta di spirito da parte loro. La figura curva dell'uomo fece segno ai non morti di andarsene e questi scattarono come un sol uomo, lasciandolo solo nella grande sala: -Che noia.- Commentò, laconico.
Prese il candelabro e si avviò lentamente oltre le spesse colonne, seguendo un corridoio dalla volta pericolosamente frastagliata.
Bussò a una porta di legno tarlato, posta proprio in fondo al corridoio, e una voce limpida gli giunse alle orecchie: -Avanti.-
Una volta entrato, l'uomo con il bastone dovette aspettare che i propri occhi si abituassero alla luce degli ampi lampadari, prima di individuare i vari oggetti nella stanza. Tre enormi scaffali strabordavano di libri consunti e cianfrusaglie varie, la scrivania era sommersa da pietre e cristalli di forme e dimensioni improbabili e le pareti di pietra umida erano letteralmente tappezzate di disegni, scarabocchi e pagine ingiallite, strappate da chissà quale antico e dimenticato grimorio.
La figura riuscì a farsi largo verso destra e a sporsi oltre le altissime pile di libri davanti a sé, individuando infine il proprietario della stanza: -Salute, Maestro!-
Il grazioso elfo cui si era rivolto, sdraiato scompostamente sull'improvvisato letto di stoffa sdrucita, si voltò appena. -Salute, stregone.- Questo sedette sulla sedia di legno accanto al letto, sospirando, come colto da una grande fatica.
-Che occhiaie indecenti. Sei forse stanco?- Chiese l'elfo, apparentemente poco interessato. L'altro annuì: -Muovere un migliaio di unità per così tanto tempo è faticoso.-
-Oh, ma non mi dire.- Commentò l'elfo, sardonico. -Come se io non provassi la tua medesima fatica.- Il colorito dell'elfo, in effetti, era pallido, i suoi lunghissimi capelli neri sfibrati e spenti.
Lo stregone gli posò una mano sulla fronte, premuroso: -Starai meglio. Ti permetterò di riposare a dovere non appena Maestro Saedor sarà giunto ai confini di Gondor.-
L'altro parve rilassarsi sotto il suo tocco, socchiudendo i grandi occhi blu: -è giusto così. Ora è lui ad aver bisogno della nostra forza.-
Stettero un po' in silenzio, a riflettere ognuno sui propri crucci.
Poi, entrambi furono distratti da un sussurro nell'aria.
Era una voce femminile, flebile come un alito di vento, lontana e vicina allo stesso tempo. L'elfo dai capelli scuri non si scompose e si limitò a rivolgere un'occhiata allo stregone. Infatti, egli sapeva bene da dove provenisse quella voce e infilò velocemente una mano nella manica della veste blu. Estrasse con delicatezza un grosso pezzo di quello che poteva sembrare vetro scuro, dai bordi frastagliati, e guardò attentamente dentro ad esso: -La stella si è ritirata nel Palazzo, da sola. Riesco a vederla, attraverso le tende della sua stanza.- Sorrise.
L'elfo dai capelli neri sollevò le sopracciglia arcuate, curioso:
-La nostra efficiente spia non perde tempo.- Commentò.
-Come sempre...- Lo apostrofò l'altro, concentrandosi sulle immagini che si muovevano veloci sotto la superficie traslucida del vetro: -Mhm, credi di avere abbastanza energie da permettermi di fare una cosa davvero divertente, Lhospen? Devo ancora sistemare alcuni dettagli del mio piano e questo mi sembra il momento perfetto.- Chiese allora lo stregone, allargando il proprio ghigno. L'elfo ricambiò il sorriso, intuendo al volo i pensieri dello stregone: -Quello che desideri.-
Sedette sul letto e incrociò le gambe affusolate, respirando profondamente. Prima, scrutò nel vetro scuro, come a imprimersi nella mente ogni dettaglio della scena che vi era riflessa; poi chiuse gli occhi blu e, dopo poco, lo stregone si trovò immerso nella penombra di una stanza da letto. Qui, la stella dormiva, l'espressione serena. -Chissà cosa sta sognando.- Sussurrò.
Lhospen gli lanciò un'occhiataccia, continuando ad arricchire l'illusione attorno a loro. Portare le loro proiezioni astrali fino a Minas Tirith era un esercizio difficile, soprattutto se l'unico riferimento che aveva era un'immagine sfocata, dentro una pietra traslucida. Si concentrò e la sua illusione si fece sempre più macabra. Aggiunse una pila di cadaveri mutilati, qualche fiotto di sangue qua e là. Poi si concentrò sui suoni, gli odori, le sensazioni: non vedeva l'ora di vedere la faccia spaventata della stella. Volle esagerare e la giovane Principessa Miniel era di certo perfetta per quella parte del suo piano.
Lo stregone, una volta conclusasi l'opera, fissò la scena davanti a sé e squadrò la propria figura gemella, come l'elfo l'aveva creata: -Io non sono così alto, Lhospen.- Puntualizzò.
L'altro scosse una mano: -Dettagli, dettagli. Tu pensa al tuo discorso, io penso all'illusione. Questi sono i patti.- Lo stregone rise, posando il proprio bastone e concentrandosi totalmente sul suo compito. Sapeva bene cosa fare.
La falsa Miniel svegliò la stella con la sua petulante voce e il falso stregone, puntualmente, la uccise. Quello vero, comodamente seduto sulla sedia di legno, alzò gli occhi al cielo per l'esagerata teatralità del Maestro delle Illusioni, che invece sorrideva, sadico.
La scena si protrasse per un po', tragica.
Poi la stella reagì con improvvisa violenza.
Quando la luce bianca del suo potere si stagliò nella scena, Lhospen sobbalzò, preso in contropiede. -Presto, mostrale il volto di Alatar!- Impose velocemente lo stregone.
L'elfo fece quanto gli era stato detto, cercando di rimanere più fedele possibile alla realtà. Ed ecco apparire il viso dell'altro stregone, più dettagliato di quanto Lhospen volesse ammettere.
A quella visione, la stella si spense all'istante e Pallando allargò il proprio ghigno: -Come sospettavo. Alatar ha fatto un gran bel lavoro. Ora mostrale il mio volto.- Sibilò.
Quando fu certo di aver catturato a dovere l'attenzione di Sillen, sorrise: -Stella dei Valar... che piacere conoscerti.-


La Stella dei ValarDove le storie prendono vita. Scoprilo ora