Capitolo 5 - Grace

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Ero brilla.

Decisamente, sconsideratamente, brilla.

L'agguato di mia madre aveva finito per logorare i miei nervi già tesi. Ogni volta che mi trovavo a relazionarmi con lei mi sembrava di tornare bambina: una bambina capricciosa, indegna.

Erano bastate veramente poche parole, un ordine imperativo e la prospettiva di dover sottostare ancora ai suoi giochi per incrinare irrimediabilmente la mia maschera.

Ecco, perché, ero finita in un locale a bere.

Con un vestito attillato e le cosce di fuori.

Con un paio di tacchi a spillo che nemmeno sapevo di avere.

I capelli sciolti che mi sfioravano il collo e un rossetto rosso che avevo cancellato all'ultimo minuto.

Mi ero lasciata andare, cercando di essere diversa da come ero di solito. Sentivo di stare perdendo me stessa. Non ero come i miei genitori – la mia altolocata famiglia – mi volevano. Non ero nemmeno come mi volevo io, perché a forza di fingermi fredda come un ghiacciaio avevo finito per dimenticare che odiavo le persone scostanti e che non ero mai stata a mio agio con facce false e pugnalate alle spalle.

Cristo, mi ero trasformata proprio in quello che volevano i miei.

Una donna gelida.

Avevo passato la serata a bere... e a scansare le mani inopportune di sconosciuti che a quanto pare non avevano mai visto un paio di gambe nude prima d'ora.

Ero finita tristemente all'angolo, a sorseggiare Whisky e Cola e a desiderare di poter mandare tutti al diavolo.

Ma non potevo.

Non era solo il dover ribellarmi alla mia stramaledetta famiglia. Avrei potuto mandare tutti al diavolo se solo avessi trovato il coraggio necessario.

Ciò che mi spaventava più di tutto, era l'idea di dovermi reinventare, di poter finalmente essere Grace, solo Grace. Peccato, che io non sapessi chi fosse la vera me.

Avevo paura che smettere di fingere mi avrebbe portato a navigare in acque alte, dove sarei affogata dopo pochi istanti.

Meglio una maschera ben costruita anche se non mi apparteneva, non un viso pulito che non era capace di sopravvivere agli schiaffi della vita, no?

Sapevo che era l'alcol che mi spingeva a fare quelle riflessioni fin troppo brutali... e vere. Stavo lentamente perdendo il controllo di me, delle mie emozioni.

Avrei potuto mettermi a frignare e ritirarmi in un angolo, ma avevo paura che non sarei più riuscita a rialzarmi.

Era stato con gli ultimi barlumi di lucidità che avevo chiamato Samantha in cerca di aiuto.

E lei aveva risposto.

Avrebbe dovuto attaccarmi il telefono in faccia dopo il modo in cui l'avevo trattata in tutti quegli anni. Avrebbe dovuto ridere nel trovarmi in una posizione di debolezza. E, invece, no.

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