Capitolo 10 - Dylan

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S

altai fuori dal letto a una velocità tale che qualcuno avrebbe pensato che le lenzuola stessero bruciando. Agguantai i boxer, li tirai su per coprirmi e andai alla ricerca di Grace.

Stava armeggiando con le scarpe, tentando con le mani tremanti di agganciare il cinturino sottile.

«Non volevo dire quello che ho detto.»

«Il problema è questo,» brontolò senza nemmeno voltarsi a guardarmi, «l'hai detto.»

«Vuoi negare che saresti capace di restare imperturbabile anche di fronte a un mega incidente stradale?»

Grace trasalì e mi resi conto di aver detto, di nuovo, la cosa sbagliata.

«C'è differenza tra essere fredda e composta sul luogo di lavoro e provare empatia verso delle persone che hanno subito una disgrazia.»

«Lo so.» Quelle parole la spinsero a guardarmi con la coda dell'occhio. Ne approfittai per continuare. «Conosco la Grace che fingi di essere e quella che sei veramente.»

«Pensi che una scopata possa svelarti tutto di me?» Il suo tono era così affettato che le parole avrebbero potuto ferirmi.

«Sono anni che ti osservo.» Grace strinse gli occhi e io mi maledii per essermi esposto così tanto. Dato che ormai avevo dato fiato alla bocca, decisi di continuare. «Non volevo dire che tu fossi fredda.» Il sopracciglio di Grace si incarcò dandomi del bugiardo. «Ok, volevo dirlo, ma intendevo che hai una perfetta padronanza di te. Sembra che niente riesca mai a turbarti, ma io la vedo la differenza.»

«E che vedi?»

«Sei capace di ardere come un fuoco incontrollato. Riesco a leggere le tue espressioni quando nessuno ti guarda. So che faccia fai quando sei contrariata, ma non puoi ribattere. So che cosa provi quando le mie mani ti accarezzano. So che ti piace lasciarti andare, ma che non ti permetti di farlo.»

Per un lungo momento, Grace non disse niente. Rimase a guardarmi con espressione neutra, come se quello che avessi detto non l'avesse minimamente colpita. Già il fatto che non stesse varcando la porta per andare via, però, mi faceva ben sperare.

«Cosa sta succedendo tra di noi?» chiese sottovoce.

«Non lo so» ammisi con sincerità.

«Quello che stiamo facendo non può andare oltre.»

La facilità con cui riuscì a mettere un paletto alla nostra situazione mi diede fastidio.

«Non sono famoso per le mie relazioni durature» confessai. Non mi permise di continuare.

«Non ti ho chiesto di mettermi un anello al dito» affermò stizzita.

«Il matrimonio non è nei miei programmi attuali.» Che cavolo, non sapeva nemmeno che ero un mutaforma, di certo non potevo pensare in quel momento che avrei voluto sposarla.

Grace sbuffò. «Se anche lo fosse, non sarei io la prescelta.»

«Cosa stai dicendo?» chiesi confuso.

«Pensi che sia la prima volta che non sono abbastanza per qualcosa?» Il suo sguardo divenne cupo. «Spalle dritte, Grace» gracchiò, in una specie di imitazione di quella che supposi fosse la madre. «Non si mastica a bocca aperta. Le signorine non corrono.» Prese a muoversi lungo il salotto, percorrendolo avanti e indietro mentre gesticolava. «La facoltà di Giurisprudenza è la cosa giusta per te. Le Smith non diventano ballerine, le Smith diventano Capi di Stato.» Si fermò di botto, lo sguardo fisso nel mio. Le spalle le tremavano, gli occhi erano lucidi di lacrime represse e rabbia. «Non sai quello che è meglio per te.»

Capivo da dove scaturiva tutto il suo livore, il motivo per cui alle volte sembrava voler essere una spanna sopra gli altri. Altro non era se un meccanismo di difesa.

«Cosa c'entra tutto questo con noi?»

«Per una volta voglio essere io a decidere se sono o meno abbastanza per qualcosa.»

Ci misi un po' a comprendere che cosa volesse dire. Voleva me? Voleva avere l'opportunità di costruire qualcosa insieme?

Un sentimento caldo mi sbocciò nel petto, subito soffocato da uno più gelido.

«Non sai nemmeno cosa stai chiedendo.»

«Tu dici?» rispose con sfida.

«Io...» cercai le parole per andare avanti, «io non sono solo questo» affermai indicandomi. «Non sai cosa prenderesti veramente scegliendo me» affermai con tono amaro.

Dovevo decidere. Lasciarla andare e allontanarmi. Oppure andare fino in fondo e dirle chi fossi veramente.

Avevo bisogno di pensare, di mettere le distanze tra noi per riuscire a capire cosa volessi veramente. Le voltai le spalle, ma le sue parole mi bloccarono ancor prima che riuscissi a imboccare il corridoio.

«Invece, lo so. So cosa sei.»


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