Capitolo Sette

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Alessandro
La matita filava sul foglio ruvido in maniera delicata, delinenando i tratti di un volto umano. Disegnava un sorriso morbido ed aperto senza nemmeno dover guardare la foto che aveva davanti. Lo vedeva da giorni quel sorriso così docle, non avrebbe potuto toglierlo dai suoi ricordi nemmeno se lo avesse voluto. Il cellulare che squillava lo riportò alla realtà. Guardo l'orologio: le undici e mezzo di sera. Chi poteva essere? Rispose al numero sconosciuto e il suo sangue sembrò gelarsi nelle vene senza poter più fluire per qualche secondo. "Alessandro, nipotino mio. Ti ricordi di me?" un forte accento milanese ed una voce roca, sapeva esattamente di chi si trattava. "Alberto, certo che mi ricordo di lei" disse a denti stretti. Alberto era uno degli esponenti di spicco della mala milanese. Faceva parte dei Malaterra, una sorta di clan o come cavolo si dice, tra i più violenti. Alberto in particolare era noto per la sua freddezza nell'uccidere chiunque rifiutasse anche solo un suo saluto. Non a caso, veniva chiamato "Lo Spaccatestine" per alludere alla sua metodica preferita: fracassare il cranio delle sue vittime. Aveva una fedina penale lunga, davvero troppo lunga, eppure eludeva sempre le accuse più pesanti di omicidio, estorsione, ricatto, spaccio, traffico d'armi e altre tremila cose. E tra la sua ampia rete di "commerci", come li chiamava lui, c'era purtroppo anche il traffico d'umani. Era stata la prima persona che aveva conosciuto quando, con sua madre, erano scappati dalla sua terra natia. Alessandro allora aveva solo nove anni ma ricordava bene ogni singola cosa successa da quel preciso istante in cui la sua mano callosa aveva stretto la mano di quel bambino e gli aveva sorriso. "Se ne occupa zio Alberto" gli aveva detto. Ed aveva cominciato con i favori. Ora, voleva un ritorno, ne era certo "Che dici di una bella cena con zio, diciamo tra una mezzora? Mando l'auto a prenderti. Dobbiamo parlare." Alessandro deglutì mentre l'altro attaccava senza nemmeno aspettare una risposta. Non avrebbe avuto senso richiamarlo per disdire, non aveva nè una scelta ne il suo numero. Scrisse un messaggio all'unica persona che avrebbe potuto aiutarlo: "Ga' se non ti scrivo entro le due di mattina, va alla polizia e denuncia tutto" digitò rapidamente. Respirò a fondo per calmare i nervi.

Ghali
Il messaggio lo colpì come un pugno allo stomaco. Era bastata quella semplice frase per fargli capire che quello che anni prima era successo a lui, ora stava per capitare al suo amico. Ed a peggiorare la situazione il fatto che questa volta, Alessandro non avrebbe avuto nessuno accanto a lui per sorreggerlo e aiutarlo a rialzare la testa. Come invece era stato per lui. Lanciò il telefono sul divano di scatto, passandosi le mani sulla faccia e ritornando con la mente a quel bambino dagli occhi bui che aveva conosciuto anni addietro. Aveva dieci anni quando era sbarcato in Italia con i suoi genitori ed a guidarli verso il rifugio sicuro per cui avevano pagato era stato proprio quel ragazzino. Si chiamava Alessandro, era più piccolo di lui di un anno ed aveva solamente una mamma ammalata di cui prendersi cura. Il viaggio per raggiungere l'Italia era stato difficoltoso e lungo e appena arrivati non avevano potuto fare altro che non fosse affidarsi a quello strano signore dalla voce roca. Zio Alberto li aveva inizialmente aiutati: aveva trovato un lavoro sia a suo padre che a sua madre, permettendogli così di stabilirsi in una casetta fuori Milano dove Ghali aveva conosciuto la spensieratezza e la felicità che un bambino della sua età avrebbe dovuto avere. E poi, erano iniziati i favori. Ghali lo capiva bene, aveva sedici anni quando il padre aveva cominciato a tornare stranamente tardi da lavoro e con delle buste piene di soldi che avrebbe dovuto nascondere in casa. L'unica salvezza per il padre era stata la prigione: in carcere aveva stretto contatti forti con altri esponenti, assicurandosi di chiarire a chiunque che se la sua famiglia fosse stata minimamente sfiorata li avrebbe uccisi eprsonalmente tutti. Ghali l'aveva odiato per l'abbandono di sua madre, che affogava nella vergogna e nel dolore da quando il marito le era stato sottratto. Era rimasto in carcere per anni, ancora adesso era lì, nel braccio di estrema sicurezza per detenuti pericolosi. Da lì, gestiva ancora le fitte trame dello spaccio pur di assicurare una costante rendita alla famiglia. Rendita che ora, per fortuna, a loro non serviva più: Ghali si era tirato su le maniche ed aveva lavorato finchè finalmente non era sbocciato. "Ricchi Dentro" era proprio la sintesi perfetta della sua vita "Mamma dai sincera ti aspettavi tutto questo? Eravam già ricchi dentro, mio dio che bello dirti te l'avevo detto" le strofe che personalmente aveva scritto. Doveva fare qualcosa, non poteva stare li senza fare nulla.

Due Vite - Amore alle Prime ArmiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora