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« mamma, perché quei bambini non vogliono giocare con me? »

« perché tu non sei come quei bambini tesoro »

« e perché no? »

Il rumore di un clacson ci fece sobbalzare, sembrava fossero passati dieci minuti invece è da due ore che sono qui, seduta su un'altalena solitaria, ad osservare i bambini ignorarmi come se fossi un essere estraneo a questa terra, per un motivo a me non apparente; mio padre non è una persona molto paziente, anzi, non lo è affatto, perciò mamma si sbriga a prendermi di peso e caricarmi in macchina per dirigerci a casa.
Detestavo casa mia, detestavo tornarci ogni giorno, la detestavo perché ciò che accadeva in quelle mura non poteva azzardarsi ad uscire fuori, altrimenti l'ira di mio padre si sarebbe scatenata anche lì.
Quando le cuffie diventano il tuo migliore amico capisci di essere spacciata; quando desideri di perdere le capacità uditive pur di non assistere alle urla dei tuoi genitori, o meglio, di mio padre.
Come ogni giorno dalla mia nascita a questa parte, mio padre trovava una scusa nuova per sfogare le sue rabbie sull'esile corpo di mia madre, che stremata non trovava più le forze di ribellarsi a ciò che l'avrebbe segnata per sempre. Il mondo smette di girare, il suo moto di rotazione sembra fallire e la mia casa sembra uno studio musicale per quant'è insonorizzata, non sento gli uccellini cantare, non sento le auto passare o le moto sfrecciare, non sento risate provenienti dal vicinato, non sento nemmeno mio fratello che cerca un modo per farmi uscire dalla cupola in cui mi sono rinchiusa dal momento in cui la porta di casa è stata serrata. Più e più volte ho tentato di liberarmi dalle braccia di mio fratello Aaron per provare ad aiutare mia madre che nel mentre non poté fare nulla per liberarsi dalle grinfie di quel mostro che decise di sposare, ma nulla più di qualche schiaffo mi fu concesso, nulla più di un "tranquilla, mamma starà bene".

I giorni passavano e gli incubi continuarono, l'andare al parco era solo una scusa per far passare più tempo possibile prima di rientrare in quelle gelide mura.

Un giorno come tanti, fuori pioveva e mio padre stava accennando l'idea di non andare al parco per oggi perché tanto non ci sarebbe stato nessuno con cui giocare, ignaro del fatto che anche col sole che rompeva le finestre nessuno giocava con me; proprio quel giorno riuscii fortunatamente ad andare al parco dove mentre mia madre si era ritirata in un locale poco distante per stare al caldo, per la prima volta qualcuno mi rivolse la parola, un bambino.

« Che ci fai qui con la pioggia? » era più alto di me, aveva gli occhi color bosco, erano un verde scuro ma era ben notabile fossero verdi, non ce n'era dubbio. Si calò per arrivare alla mia altezza ed inchiodare i suoi occhi sui miei; mi chiedo delle iridi così verdi cosa abbiano da guardare nelle mie scure come la pece.

« non volevo stare a casa » mentii, perché se avesse scoperto la verità, forse non sarebbe qui a parlarmi come se nulla fosse.

« Sai nemmeno a me piace stare a casa » continuò mentre iniziò a studiare i lineamenti del mio viso come se non avesse mai visto nulla del genere.
Non riuscii a rispondere perché proprio mentre stavo per farlo, mi voltai per qualche secondo nella direzione del piccolo locale da cui sbucò fuori mia madre e non appena mi girai, lui era già andato via.

« chi era quel bambino tesoro? » mi chiese con la sua docile voce, non era minimamente paragonabile alla voce roca e tuonante di mio padre.
Alla sua domanda risposi un flebile "non lo so" che fece aprire in me una curiosità non indifferente.

Chi era quel bambino? Perché ha parlato con me? Perché non gli piace stare a casa? Anche lui ha un padre che merita di essere detestato? Oppure c'è qualcosa di più grande di questo? Forse non lo scoprirò mai.

A dream in a nightmare.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora