Capitolo 2

130 6 0
                                    

I raggi del sole fecero capolino dalla tenda non ben chiusa della finestra che dava proprio sopra il letto matrimoniale. Mi crogiolavo tra le morbide e lisce lenzuola di seta grigie finché attendevo il suono della sveglia alle 5:30 del mattino. Pensavo all'organizzazione tecnica del trasferimento, mentre inspiravo il profumo floreale della stoffa del cuscino del posto vicino a me, che oramai non era occupato da un uomo da anni.

Ero una trentasettenne oramai disillusa dell'amore. Tutti gli uomini con cui ero stata si sentivano intimoriti dal mio aspetto, dal mio lavoro, ma ancor prima dalla mia tenacia e sicurezza in quello che facevo, che trasponevo anche nella mia vita privata.

La radio della sveglia mi diede il buongiorno, così mi alzai dal tepore del letto e mi recai in bagno. Lo specchio rifletteva la figura di una donna ormai affermata, dagli occhi grandi scuri e dai lineamenti sinuosi e al contempo duri.

Strofinai i lividi sul bicipite destro, procurati dalla lotta corpo a corpo con quella feccia a cui avevo fatto assaggiare il freddo delle manette, due giorni addietro.

Mi gettai l'acqua fresca sul viso ed incominciai a prepararmi per iniziare il turno, che quella mattina era programmato per sistemare il tutto per la partenza del giorno dopo.

Mi recai in centrale, dove venni richiamata subito per firmare scartoffie insieme a Johnson.

"Karen non intimorirti se ci hanno spediti lì, il tempo che arresto i bastardi e torniamo", sbiascicò al mio orecchio Jack. Odiavo il suo modo di fare così arrogante ed egocentrico, ma era un buon soldato.

"E tu cerca di non fartela addosso, oppure devo portarti il pannolino?", risposi in sfida.

Jack, che era un uomo di 40 anni, si allontanò infastidito dalle mie parole. "Non giurarci pollastrella, vediamo chi vince prima".

"Certo", abbozzai una falsa risata, "vedremo".

Anche quest'altro si sentiva in competizione, ma che diamine! Davvero gli uomini non avevano più le palle?!

Quella sera bevvi un'ultima birra con i colleghi e poi mi fiondai a casa. Aprii quella porta blindata per l'ultima volta, e, nel farlo, provai già un po' di nostalgia. Adagiai le chiavi e la pistola sul mobile in legno scuro che divideva il salone dalla camera da letto. Lasciai i vestiti cadere in terra e mi recai in bagno, felice di gettarmi sotto l'acqua calda e scaricare lo stress della giornata.

Iniziai a preparare le valigie. Nel riporre gli abiti all'interno, il cuore mi batteva forte nel petto al pensiero di dare la caccia a dei narcotrafficanti di quel calibro, perché non potevano che essere potenti, visto che la DEA locale stava richiamando i soldati più efficienti altrove.

Mentre piegavo gli abiti, lo sguardo fu attirato dalla busta bianca poggiata sul comodino, contenente il biglietto dell'aereo e che ancora dovevo aprire. La presi e sfilai il carnet, rivelando che ci stavamo dirigendo a Bogotá. Bene.

*Mattina*

Suoni di sirene varie e luci ad intermittenza riempivano il chek-in all'aeroporto. Io e Jack passammo i controlli della sicurezza e ci dirigemmo verso il nostro aereo. Furono ore interminabili, anche ascoltando la mia musica preferita. L'agente Johnson occupava il posto di fianco, ma trascorse tutto il viaggio a sonnecchiare.

Non avevamo fascicoli né dossier, andavamo alla cieca.

Raggiunto l'aeroporto di arrivo, trovammo un uomo appoggiato ad un vecchio veicolo scuro degli anni 2000. Ci riconobbe e ci informò che ci avrebbe portato dal comandante Lopez. Io e Jack ci guardammo d'intesa e lo seguimmo in macchina.

----------

"Benvenuti agente Miller e agente Johnson, sono il comandante Lopez. Sono al capo dell'operazione Ortega. Proprio ora due dei miei agenti sono sul campo a svolgere operazioni di spionaggio per acquisire informazioni".

Dunque, non saremo stati operativi quel giorno.

"Attenderete il loro arrivo e vi informeranno sul da farsi. Miller lei affiancherà l'agente Pascal, mentre lei, Johnson, affiancherà l'agente Wilson". Ci porse dei fascicoli e continuò.

"Ci sono tonnellate di droga che arrivano in tutto il continente e sono i fratelli Ortega al capo del cartello. Per oggi acquisite le informazioni necessarie e passate in armeria a registrare le vostre armi". Congedò Lopez.

"Cazzo Miller, qui sì che non si scherza", proferì Jack appena fuori dalla centrale. "Andiamo al bar vicino l'hotel stasera a berci qualcosa, che da domani è finita la pacchia". Aveva ragione, un po' di relax prima di iniziare la guerra era necessario.

Indossavo un jeans ed una canotta scollata, ma il caldo era insopportabile. Ci sedemmo ad un tavolo vicino la vetrata che dava sulla strada. Il posto era alquanto degradato. Le luci led sgargianti delle insegne dei negozi si vedevano sfocate dalle lerce vetrate del bar.

"Karen sei molto silenziosa, ti preoccupa qualcosa?", mi sorpresi di tanta premura da parte di Jack.

"No, no... solo che...", mi misi a sedere comoda, appoggiando la caviglia destra sul ginocchio opposto, "...è sempre stato il mio sogno partecipare ad un'operazione antidroga così importante", gli confessai con gli occhi luccicanti di eccitazione.

"Hai letto i dossier che ci hanno consegnato stamattina?", chiese mentre sorseggiava la birra schiumosa.

"Non ancora, appena torno me li studio a dovere, bella comoda sul letto", dissi incantata dai miei pensieri, mentre sgranocchiavo qualche nocciolina.

La birra aveva fatto il suo corso e sentii l'impellente bisogno di andare in bagno. Non l'avessi mai fatto. Io che ero abituata allo splendore del mio appartamento, ritrovarmi in un posto così mi faceva quasi ribrezzo.

Nel rientrare nella sala, notai un uomo che beveva da del liquore con ghiaccio al bancone del bar. Nel passargli accanto, mi guardò mentre aveva ancora il bicchiere alle labbra tenuto nella mano sinistra, dove notai un tatuaggio tra il pollice e l'indice. Tre cerchi concentrici.

"Posso offrirti da bere?", biascicò mentre ingoiava il liquore e bloccava il cellulare con la mano destra, mettendoselo in tasca.

Era difficile scorgerne il volto con chiarezza tra quelle luci soffuse.

"No grazie", risposi con leggerissimo imbarazzo. Mi destai e ritornai a sedere.

"Hey Karen, non sei nemmeno arrivata in questa città e già hai fatto colpo", disse con tono canzonatorio il collega.

"Io vado a dormire, domani sarà una giornata impegnativa. Dovresti andare anche tu Jack", dissi non dando peso alle sue sciocche parole.

"È per caso un invito?", si fece avanti.

Notai con la coda dell'occhio il bruno al bancone girarsi appena a guardarci.

"Ma no, non darti tante arie. A proposito, passa a prendermi alle sette, dobbiamo sistemarci nell'appartamento assegnatoci dal comandante. Ci vediamo domani".

Presi la camicia di jeans, la borsa e mi alzai da quella panchina di legno del locale e, nel recarmi alla porta di ingresso, passai accanto all'uomo misterioso di prima, respirando il suo profumo che sapeva di ambra, muschio e tabacco.

Arrivata nella stanza dell'hotel, dove avrei dormito solo per quella notte, mi spogliai per indossare la vestaglia in seta e, comoda sul letto, iniziai a visionare il fascicolo sui due capi narcotrafficanti.

Andrés e Domingo Ortega. Dalle foto in bianco e nero, Andrés, il più grande, era basso e robusto, mentre il fratello più giovane, sulla quarantina, era alto e magro. Le foto rappresentavano incontri con altri capi dei cartelli.

Nello sfogliare le pagine e leggere le lunghe relazioni, gli occhi iniziarono ad appesantirsi. Decisi di riposare per essere al meglio all'incontro con gli agenti della DEA la mattina seguente.

AMOR LOCODove le storie prendono vita. Scoprilo ora