Io Sono David Hasselhoff

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Cento all'ora.
Miami si svela nella notte, come una puttana di fumo. Nella notte, inossidabili, i neon si rifrangono nell'eco delle pozzanghere e delle catene d'oro di mafiosi del quartiere latino.
«Quanto manca Kitt?».
«Ci siamo quasi David».
«Io sono David Haselhoff».
«Lo so, David».
«Quel fan ha bisogno del mio aiuto Kitt».
Centocinquanta all'ora. Fuori dal finestrino i grattacieli cominciano a deformarsi, diventano qualcosa di simile a un brutto sogno sotto lsd; uno di quelli dove i contorni delle cose cominciano a sfumare.
«Attiva il tubo catalizzatore Kitt».
«Potrebbe non funzionare».
«Doc ha detto che funzionerà».
«David vorrei farti notare che affidarsi a uno scienziato che continua a ripetere "Grande Giove" forse non è la soluzione più consona».
«Io sono David Hasellhoff, Kitt».
«Lo so, David».
«Quando ho salvato innumerevoli persone su quelle spiagge, sfidando le onde, non mi sono curato della soluzione più consona».
«Era tutto finto, David».
«Parli sempre troppo Kitt. Accelera».
Duecento all'ora.
Il mondo di fuori smette di avere un senso; le palme dei viali alberati diventano puntini di colore in un caleidoscopio distorto. Fianco a fianco con la portiera potrei giurare di aver visto il tessuto della realtà distorcersi.
«Ingresso nel tunnel spazio temporale prossimo. David, posso sollevare dei dubbi in merito alla tua linea d'azione?».
«L'unica cosa che ci serve sollevare ora», gli dico indossando i miei rayban a goccia, «È il confine dello spazio e del tempo».
Pigio sull'acceleratore; spazio e tempo si distorcono in linee di colore, si sfilacciano e si ricompongono in forme geometriche confuse e indefinite. Il tubo catalizzatore, alle mie spalle, brilla di un giallo incandescente.
Ci siamo. 

Il salto è di quelli che si fanno sentire; mi sento vibrare fin dentro i muscoli

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Il salto è di quelli che si fanno sentire; mi sento vibrare fin dentro i muscoli. Ma devo farlo: ne va della felicità del mio caro fan.
«Siamo arrivati, David».
Ho come la sensazione che ci sia qualcosa di strano. «Sembra un posto dimenticato da Dio».
«Perché lo è David: si chiama Busto Garolfo».
«Tipico nome svedese».
«È italiano».
«Beh, sarebbe potuto anche essere svedese».
Mi rendo conto della stranezza: le mie mani non sono attorno al volante, ma toccano l'aria. E invece di essere comodamente adagiato sul mio sedile leopardato sono seduto su di un marciapiede.
«Kitt».
«Sì, David?».
«Perché sono seduto su della cacca di cane?».
«Sarai felice di sapere, David, che per l'umano medio porta fortuna».
Mi alzo e mi pulisco alla meglio con le salviettine al gusto di cocco che tengo sempre in tasca; quando si ha una pelle come la mia bisogna rimanere sempre idratati.
«Sento la tua voce Kitt, ma tu dove sei?».
«Sono proprio qui».
Abbasso lo sguardo.
Kitt è diventato una micromachine, una nera, piccola, micromachine.
«Kitt».
«Dimmi, David».
«Ti ricordavo più grande».
«Ti sarei grato se la smettessi di prenderti gioco di me, David».
Davanti a noi c'è un condominio di mattoni rossi con una striscia bianca nel mezzo.
«È questo il posto?».
«Sì David, il segnale del tuo fan proviene da lì dentro».
Stringo gli occhi, faccio un respiro profondo e annuisco.
«Showtime». 

 

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