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"Non sono passati nemmeno tre mesi e ti porti uno a casa nostra?" esclama Simone, visibilmente infuriato.
"Casa nostra? Questa è casa mia, Simone," gli rispondo voltandogli le spalle, mentre inizio a camminare nervosamente per il salone.
"Tre mesi fa ero io che dormivo in quel letto," dice, indicando la camera. "Ero io che guardavo la televisione su questo divano, e mangiavo su questo tavolo," continua, urlando e sottolineando ogni "io". Sento l'odore dell'alcool uscire dalla sua bocca.
"Non è nemmeno mezzogiorno e hai già bevuto. Come sei finito così?" Le mie parole esprimono sia disgusto che preoccupazione. Lui si rende conto di questa mia piccola debolezza.
"È colpa tua, Venere. Stavamo bene insieme, poi hai distrutto tutto all'improvviso." Scuoto freneticamente la testa.

"No, Simone, tu stavi bene. Io stavo di merda. Sono stata di merda negli ultimi due anni. Guardati, sei ubriaco, sei venuto a casa mia e stai urlando di nuovo, proprio come l'ultima volta. Ti ho detto che devi cercare aiuto." Non ho nemmeno il tempo di finire la frase prima che lui, furioso, ribatta:
"ERI TU CHE DOVEVI AIUTARMI." Si copre il viso con le mani e inizia a girare per casa come una furia. "Eri l'unica cosa che mi teneva a galla, mi hai fatto affondare e te ne sei fregata," continua.

"Io ti ho fatto affondare? Mi hai distrutto la vita, mi hai trasformato in un cadavere. Mi sento bene solo quando mi drogo." Le mie parole escono involontarie. Lui sembra sconvolto. Non credo sapesse della mia dipendenza. Praticamente nessuno lo sa, tranne Linda. Mi vergogno troppo per ammetterlo. Ma cosa mi importa di ciò che pensa lui? Lui è peggio di me.
Mi guarda ancora incredulo. Si avvicina. Io arretro spaventata. Alza una mano, e io rabbrividisco, ma la posa delicatamente sul mio viso.
"Possiamo farlo insieme, piccola. Potremmo divertirci un sacco." Mi viene quasi da vomitare. Scosto subito la sua mano.
"È tutto ciò che riesci a dire? Mi sento uno schifo da quando lo faccio, e tu pensi solo a divertirti? Ma che cazzo hai nella testa, Simone?" Lui si oscura. La sua faccia si contorce nuovamente in quell'espressione di rabbia che non riesco a togliere dagli occhi.

"Non ti sta bene niente, Venere. Prima non andava bene se mi divertivo con i miei amici, ora fai lo stesso e non va bene se ti propongo di farlo insieme. Sei pazza e stai facendo impazzire anche me." Si avvicina di nuovo a me, stavolta afferrando le mie braccia e tenendole tese lungo i fianchi. Il mio cuore comincia a battere di nuovo, ma non è come tre giorni fa, non è come prima sul divano. È paura. È angoscia. È una sensazione di soffocamento.
"Per favore, lasciami," dico cercando di liberarmi.
"Anche tu mi vuoi, Venere, lo vedo," afferma.
"Tu non vedi niente. Ho detto lasciami." Lui stringe ancora di più la presa, sento i suoi polpastrelli premere sulla pelle. Si avvicina al mio collo. "Quanto mi è mancato questo odore," dice annusandomi.
"Lasciami, Simone, mi stai facendo male," sussurro tremando, ma sembra che le mie parole non abbiano alcun peso. Non gli è mai importato di ciò che dico. Posso chiaramente percepire l'odore acre dell'alcol che esce dalla sua bocca.
"Perché non ci divertiamo un po', eravamo così felici insieme," continua, fissandomi intensamente negli occhi. Il mio sguardo si annebbia, sto perdendo di nuovo il controllo. Sto permettendo ancora una volta che faccia ciò che vuole.

La paura cresce dentro di me mentre mi lascia un braccio e fa scorrere la mano sotto la mia maglietta.
"Venere, sei più forte di lui, non devi avere paura."
"Ho detto di lasciarmi!" urlo. Mi libero dalla sua presa e lo spingo via da me. In risposta, lui afferra una sedia e la scaglia con violenza contro un muro. Inizia a urlare parole terribili, parole che mai avrei immaginato di sentire. Colpisce con un pugno la porta del bagno e lancia per aria tutto ciò che trova sul suo cammino. La casa è in uno stato di caos totale. Mi siedo a terra, stringo le mani sulle orecchie, cercando di bloccare il suono assordante delle sue urla. Tutto ciò che voglio è che questa terribile situazione finisca.

TOC TOC TOC.
Sento dei colpi energici sulla porta.
"Apri, Venere," grida qualcuno. È Giusy, la mia vicina di casa, un'anziana signora di 80 anni. Giusy vive con suo marito ed è stata lei, tre mesi fa, a chiamare i carabinieri.
TOC TOC TOC.
I colpi si fanno ancora più forti. Simone si dirige verso la porta.
"Ancora non hai imparato a farti i cazzi tuoi?" Mi alzo di scatto, preoccupata che possa sfogare la sua rabbia su di lei.
"Giusy... eccomi..." dico con voce tremolante.
"Sentivo urlare, mi sono preoccupata. Tutto bene?" domanda, evidentemente spaventata.
"Sì, tutto a posto. Simone se ne stava andando." Lui, invece, reagisce come sa fare: mi insulta di nuovo.
"Non finisce qui," tuona, fissandomi negli occhi, e scende le scale.

Finalmente riprendo fiato. È stato come se fossi rimasta senza respiro tutto il tempo.
"Venere, cara." Giusy entra in casa e mi abbraccia. Non posso fare a meno di scoppiare in lacrime. Forse è un pianto liberatorio, mi sto liberando dalla paura, dalla frustrazione, dall'ansia. Lei mi accarezza i capelli.
"Non puoi continuare così, tesoro. Perché hai permesso che entrasse in casa?" Mi chiede con gentilezza.
"Non sono stata io. Ha le chiavi. Non me le ha mai restituite." Adesso ricordo. Dovevamo vederci una settimana dopo la nostra rottura, ma non si è mai presentato.
"Devi cambiare la serratura. Questa situazione non può continuare. È pericoloso e aggressivo. Pronuncia parole sconce e lancia oggetti." Continuo a singhiozzare. Lei insiste: "Sei sempre sola qui dentro, e se avessi un ragazzo..." Mi viene improvvisamente in mente Thomas.
Devo mandargli un messaggio, così mi alzo dalla sedia.
"Va tutto bene, Giusy, cambierò la serratura," dico, asciugandomi le lacrime.
"Promettimelo," dice con voce supplicante.
Giusy è davvero una brava donna. È minuta, più bassa di me, e io non arrivo nemmeno al metro e sessantacinque. Ha i capelli bianchi, raccolti quasi sempre in una chignon. Le sorrido, prendo le sue mani e glielo prometto. Dopo cinque minuti, una volta assicuratasi che stessi bene, Giusy esce da casa mia. Cerco il cellulare. Nel trambusto di prima, non so che fine abbia fatto. Alla fine, lo trovo dietro un cuscino del divano. Queen ancora non esce da sotto al letto. Cerco nella rubrica e immagino che il suo numero sia sotto il suo nome. Indovino bene.Vicino al nome, ha messo l'immagine di un pinguino. Mi scappa un sorriso."Sto bene, grazie per esserti interessato," digito. Dopo nemmeno trenta secondi, sento vibrare il cellulare."È andato via?" scrive."Sì, la mia vicina di casa ha fatto in modo che se ne andasse." Non riesco a fare nulla, aspetto solo una sua risposta."Potevo farlo io, se me lo avessi permesso."
"È complicato," chiudo l'argomento. "Tu sei complicata. Stasera, dove vai a ballare?" Mi stendo in camera sul letto."Credo al Gay Village." Il Gay Village è una discoteca all'aperto frequentata principalmente da persone gay, ma anche da molti eterosessuali come me. La musica è fantastica ed è un luogo molto divertente."Che ci fai al Gay Village? Mi sembravi molto etero prima sul divano" scrive, aggiungendo una faccina compiaciuta."Ho molti amici gay e mi piace il posto." Mi sono svegliata soltanto da due ore e già sono stanca di nuovo. Dovrei cucinarmi qualcosa, ma mi è passata la fame.
Thomas non risponde e io chiudo gli occhi.
Solo un attimo.

IL BATTITO DEL NOSTRO CUOREDove le storie prendono vita. Scoprilo ora