Capitolo 33

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Caleb percepiva il trascorrere dei giorni solo dal susseguirsi dei pasti che gli venivano portati in stanza, o le cene a cui partecipava nella sala da pranzo principale.

Da quando era lì aveva messo la magia sotto chiave e di tanto in tanto la cosa lo disturbava; sentiva come un prurito sotto pelle che gli tormentava le guance e il naso, talvolta anche punti che gli era impossibile grattarsi, e nemmeno se ci fosse riuscito avrebbe trovato sollievo. L'unico modo sarebbe stato liberare il proprio potere, lasciarlo vagare tra i corridoi di ghiaccio del palazzo della matriarca, per adagiarsi sulle donne e i loro uomini al guinzaglio e rivelargli verità che non voleva conoscere.

Erano passati giorni, ma non aveva avuto il coraggio di girare per il palazzo e individuare uscite e svincoli da evitare, né tantomeno gli era passato per la testa di intrattenere un discorso con una delle donne del matriarcato, né con uno dei loro schiavi.

Caleb era rimasto nella propria stanza tutte le volte che non era stato costretto a fare il contrario.

Era una bella camera, simile alla propria a Ishtal, ma più appariscente. Il letto a baldacchino nel centro aveva tendine e lenzuola candide, come l'arredamento classico e pretenzioso. I ghirigori che si intrecciavano sui mobili di legno dagli  spigoli ondulati erano azzurri o dorati e dorate e traslucide erano anche le tende che coprivano l'unica finestra enorme della stanza. Una mossa intelligente quella di non dargli una stanza con un balconcino che avrebbe potuto scavalcare con più facilità. In ogni caso, la finestra era al terzo piano e il salto non sarebbe stato piacevole, anzi, sarebbe stato una vera e propria follia.

Insomma, era un alloggio molto piacevole per essere una cazzo di prigione. E non era nemmeno la cosa peggiore.

Maisie era l'unica che quotidianamente interrompeva il silenzio delle giornate di Caleb. La vedeva ogni sera, perché la donna insisteva affinché cenassero insieme, lui la accontentava anche se il suo piatto restava sempre intatto.

Il cibo lo disgustava. O meglio, l'idea di mangiare lo faceva. Ogni volta che la forchetta di Maisie prendeva un boccone di qualsiasi cosa, Caleb pensava a Dan, a come il suo amico lo avrebbe convinto a mangiare; allora la sua lingua diventava cenere e la saliva acido.

Sapeva di doversi tenere in forze, ma non ce la faceva. Non ne aveva voglia.
E sapeva anche che il fondo di quel pozzo da cui Dan l'aveva salvato era di nuovo vicino.

Probabilmente, il primo passo per risalire era dare un nome a tutto quel nulla. Caleb aveva visto il colore della depressione, era una nebbia grigio ghiaccio, scialba e soffocante, qualcosa che c'era e allo stesso tempo toglieva tutto.

L'aveva anche visto addosso a sé, anni prima e di recente. Ma ora, se solo avesse osato sbrigliare la magia, avrebbe scoperto di essere immerso fino ai capelli in quella nebbia e non lo avrebbe sopportato, ma non avrebbe nemmeno fatto nulla per evitarlo.

Era così. Troppo stanco per bere. Troppo triste per mangiare. Troppo svogliato per alzarsi dal letto quando non doveva farlo.

La vescica lo implorava di andare in bagno e lui invece se ne stava sul letto con gli occhi chiusi a riguardare ossessivamente la morte di Dan che si ripeteva nella sua testa, mentre la voce sempre più flebile di Laretha lo consolava da lontano, con un timbro che forse non le apparteneva neanche.

Odiava tutto ciò, ma neppure l'odio era un sentimento abbastanza forte da aiutarlo a evadere dai propri tormenti.
Anche se si odiava per aver mandato all'aria tutti gli sforzi che aveva fatto Dan per salvarlo. Anche se si odiava per la sua morte. E per aver abbandonato Luis e la gente che aveva bisogno di lui.
Per aver deluso Laretha...

Qualcuno bussò alla porta segnalandogli che fosse ora di cena.
Un tocco per la colazione, due per il pranzo, tre per la cena e così aveva ancora un senso della realtà.

Nethereal, Vol. 2 - L'Ordine del CaosDove le storie prendono vita. Scoprilo ora