Il buio si fa creatura viva, che si divincola e mena fendenti al pari dell'uomo che vi si è ammantato così a lungo.
Non è una lotta, la loro, non è un combattimento alla pari né uno scontro le cui regole per vincere sono chiare: è un cieco dimenarsi di membra e corpi, un susseguirsi di luci caleidoscopiche che illuminano volti resi disumani dallo sforzo e dall'ira, un coro discordante di grugniti e urla e colpi sordi di nocche contro carne e manganelli contro ossa.
Ricciardi non ha idea di come inserirsi in quel vortice di arti che agguantano e tirano e scalciano, né vi riflette, già slanciato verso di esso col suo fisico affatto atletico. Impatta di petto contro la massa umana dinanzi a lui e afferra alla cieca. Stringe una falda della tonaca da monaco; vicino al suo braccio, crede, e serra la stretta più che può, tira e strattona opponendosi alla sua forza erculea.
Esposito urla, sbraita in una lingua che nemmeno risuona umana, ma che sembra voler articolare parole di senso compiuto. Distingue solo la sua sagoma imponente e non capisce nemmeno in che direzione sia rivolto; il cappuccio cala a oscurargli il viso.
Cesarano, Antonelli e Maione gli stanno addosso, ognuno attaccato a un lembo della sua veste, l'intero baricentro dei loro corpi rivolto verso il basso, a soggiogarlo. Ricciardi li imita e strattona nella medesima direzione, all'ingiù, mettendoci tutto il proprio peso. Vuole squilibrarlo, aiutare gli sforzi dei suoi uomini, riversare in qualcosa di utile il marasma che gli si agita dentro.
La sua speranza viene estirpata sul nascere: Esposito si impenna, sgroppa come un mulo bizzoso. Ricciardi annaspa quando un colpo sulle costole gli spezza il fiato. Allenta la presa e viene subito sbalzato via dal fulcro della colluttazione; per poco non rovina a terra, ma nessuno bada a lui.
Non riprende subito parte allo scontro. Esita, con gli occhi che si sforzano alla luce fioca della lanterna e delle torce, cercando un angolo d'ingresso che non riesce a vedere. È forse più d'impaccio che d'aiuto: non è esperto di risse, lui, e l'unica a cui ha avuto la sciagura di prender parte in giovinezza gli ha lasciato la punta del naso un poco storta verso il basso.
Avverte Antonelli che impatta malamente accanto a lui, con un verso soffocato. Gli tende svelto la mano per rimetterlo in piedi, lieto di poter fare qualcosa.
«Tiello, Cesara', che ce l'abbiamo!»
La voce di Maione è irriconoscibile, deformata dallo sforzo, così come la risposta gridata dell'appuntato, che risuona più come un grido di guerra.
Antonelli fa leva sulla sua mano, prende slancio e scatta in avanti. Perde il berretto e si rigetta nella mischia, lanciandosi a peso morto contro Esposito. L'ombra priva di confini che si agita nel buio, con troppe braccia e troppe gambe, sembra perdere di statura, man mano che viene schiacciata a terra.
Il tintinnio metallico delle manette emerge in sottofondo, seguito da un clangore più forte e da una bestemmia. Ricciardi schizza in direzione del suono, recuperando a tastoni le manette da terra.
Quando si fa più vicino, il grido del Munaciello, una cantilena urlata che sembra quasi riecheggiare quella di Annina in sottofondo, acquista finalmente un senso:
«Me l'avete portata via! Me l'avete portata via!»
Qualcuno sferra un calcio accidentale alla torcia elettrica, che rotea su se stessa. Ricciardi, impugnando le manette, scorge nella luce lampeggiante come quella di una pellicola del cinematografo che gira troppo lenta, il volto dell'uomo a cui ha dato la caccia per giorni. Affatto simile a quello composto e ben curato della fotografia che ha visto, pare più il muso a zanne snudate di una belva presa in trappola, inselvatichito dalla barba lunga, dal viso smunto su un corpo troppo massiccio. Grida fino ad arrochirsi la voce.
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La Ruota degli Angeli
Mistério / SuspenseNapoli, 1934. Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato a vedere i fantasmi delle vittime con i propri occhi. Una rapina finita male, con dei dettagli che, però, non tornano. Non tornano né a lui...