1.31 ● QUANDO RIMASI AL BUIO

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Si girò verso il corridoio e se ne andò.

Non volevo tornare a scuola. Mi si formò un nodo in gola mentre chiudevo la porta, il pensiero di quello che avrebbero potuto farmi i tre giocatori di football mi fece passare di nuovo la fame.

Mi gettai sul letto e mi abbracciai nelle ginocchia. Il mio intero corpo stava tremando. La cosa più brutta che avevo pensato, sotto quegli occhi blu, era stata che avesse voluto picchiarmi, ma in quel momento avrei preferito le botte a tornare a scuola.

Quella sera, secchione fissò me e la forchetta senza parlare. Ebbi l'impressione che contasse persino i bocconi che mangiavo. L'angoscia che mi provocava fu così tanta che misi giù la posata e allontanai da me il piatto. «Scusate, non ne voglio più.» Continuai a guardare il pesce e i fagiolini per evitare lui.

Lucy si avvicinò. «Vuoi qualcos'altro, Juno? Non ti piaceva, questo?»

«No, è tutto buono. Perfetto. Ma...» mi portai una mano alla pancia, «Ho un po' di mal di stomaco. Vorrei andare in camera.»

Scappai prima che lei o suo figlio potessero rispondere.

Non bastò il tempo di salire le scale per tenere le lacrime. In camera, sfregai la manica del maglione sugli occhi. Per qualche strano motivo, le bugie che continuavo a dire a secchione, erano come fuoco. Bruciavano nello stomaco, negli occhi e sulla pelle.

Con la nonna era più facile, e anche con la mamma e papà.

La testa mi faceva male, mi sforzai di controllare le mail.

Vuote, nessun messaggio.

Mi sentii vuota anche io, ma di tutte quelle bugie e di come mi sentivo, ne ero piena. Presi il quaderno nel quale annotavo le parole nuove imparate in biblioteca, e iniziai a scrivere i pensieri che mi venivano in mente.

Buttai sui fogli la paura che avevo di quei tre compagni, di papà che non mi rispondeva e di secchione che mi faceva stare male con i suoi occhi profondi come l'acqua della piscina.

Fu come lasciare un peso da una parte. Mi rifugiai sotto le coperte stanca, ma con la mente libera.

Il secchione mantenne la minaccia. Il lunedì mattino salii di sulla scatoletta in silenzio. Non mi parlò per tutto il tempo del tragitto, una nuova parola che avevo imparato.

Sul sedile che vibrava, fissavo le mie unghie che si ficcavano l'una sotto l'altra, non riuscivo a trovare le parole per dirgli quello che mi avevano fatto. Sentivo ancora il sapore del formaggio in bocca, mi sembrava che si volesse incollare le mie labbra e impedirmi di parlare.

Se glielo racconto, forse direbbe che è una scusa e che sono pigra e stupida.

Ogni tanto mi fermavo a guardarlo. Era attento a guidare. Gli occhiali appoggiati sul naso dritto, i denti tormentavano le sue labbra, sembrava stesse pensando a qualcosa di diverso dal guidare.

Indossava un maglione nero di quelli con i quadrati sul davanti, aveva i soliti pantaloni classici con la riga, che si intonavano ai colori della maglia.

Il rombo del motore era l'unica cosa che c'era tra di noi, per un attimo desiderai domandargli che profumo era quello che sentivo quando lui entrava in macchina. Mi era mancato.

Invece, senza guardarlo, scesi dalla scatoletta quando si fermò davanti a scuola.

arrivata alla porta a vetri, mi voltai di nuovo. Era ancora lì. Non avevo modo di fuggire al mio guardiano.

Sta tornando tutto come a casa, ma stavolta, è peggio.

A Seattle non avevo gente che mi maltrattava e che minacciava di farmi fuori.

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