XVI. Vittoria (ma com'è piccola, ma com'è fragile) - Parte 2

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          Nel corso degli anni, pur essendo stato solo sfiorato dal suo afflato mortifero come gli accade per gli spettri intarsiati nel tessuto stesso della propria vita, Ricciardi ha incominciato a riconoscere gli occhi di chi è stato in guerra, o di chi la guerra l'ha scampata.

Maione non ha mai fatto parola di quanto accaduto al fronte. Ricciardi sa solo, dalle carte che gli sono capitate sottomano quando gli hanno assegnato la Squadra Mobile, che ha combattuto sul Monte Corno e che ne è tornato illeso.

Nessuna onorificenza, nessun demerito, nessun patriottismo ostentato o rancore sopito da parte sua: Maione s'appunta sul petto la semplice e lustra medaglia dell'essere ancora vivo e rivolge alla guerra gli occhi schivi e rassegnati di chi guarda qualcuno di cui non si fida affatto e di cui spesso si dimentica, ma con cui è obbligato a convivere.

Bruno, della guerra che non ha fatto, ne parla eccome e si vanta d'aver imbracciato un fucile solo contro i manichini. Da antinterventista convinto qual era all'epoca, avevano preferito spedirlo al confino vicino Messina con altri facinorosi, per evitare che portasse scompiglio e idee pericolose tra i soldati al fronte.

Negli occhi si porta ancora l'inquieta spavalderia del condannato a morte graziato a un passo dall'esecuzione; un'ombra che si è acuita e inspessita dopo il suo pestaggio e secondo mancato confino, nascosta spesso malamente dietro un sorriso beffardo e un commento caustico, di chi sa che la propria libertà ha una scadenza invisibile.

Negli occhi e sul volto di Esposito, invece, la guerra divampa ancora come fosse appena scoppiata.

Incastonati in una cornice di capelli scuri e incolti, a perdersi nel groviglio della barba rossiccia, vi sono reticoli di trincee a scavargli il viso di rughe precoci: gli tirano gli angoli della bocca in linee rigide e rimpiccioliscono i suoi occhi, dal taglio oblungo reso cadente, appesantito da borse violacee che sembrano scolpite nella pelle. Una patina salina rende lucido ogni lineamento.

Nel fissare le sue iridi di un azzurro chiarissimo, sfaccettate da venature cangianti che danno l'impressione di fissare gemme fredde, piuttosto che il luogo ove risiedono l'anima e la vita di un uomo, Ricciardi avverte la stessa morsa gelida che gli artiglia la nuca quando guarda i fantasmi.

Sa che è solo per via di Annina, della sua figura labile e tremolante sovrapposta a quella del suo assassino sin quasi a fondersi con essa. Eppure, nel piantare le pupille in quelle dilatate di Esposito, scorge un vuoto che è voragine e non dovrebbe albergare sul volto di un vivo.

Nonostante abbia sollevato il capo per guardarlo, l'uomo non sembra nemmeno vederlo davvero: il suo guatare vacuo si incastra in punti di fuga invisibili che paiono attraversarlo e perdersi nel buio alle sue spalle, come se stesse fissando qualcosa di lontanissimo, lontano mille miglia da lì.

«Arturo Esposito.»

Ricciardi scandisce quel nome con una freddezza che è solo fittizia, minata dal tremito che scuote la sua lanterna, dalle fitte ritmate che gli attanagliano il braccio, dalla voce spettrale che gli trapassa i timpani, così vicina. Guarda Annina e guarda il suo assassino, in petto la consapevolezza di aver sbagliato tutto, in quel caso, di aver avuto il colpevole sotto i propri piedi per chissà quanto tempo in quel pellegrinaggio giornaliero sul luogo del delitto.

Nel sentirsi chiamare, l'uomo si riscuote: un fremito agita la sua tonaca scura, sbiadita in più punti dalla polvere in strisciate biancastre, come gesso su una lavagna rotta. Digrigna i denti, s'alza in piedi di scatto e torreggia per un istante, poi crolla su un ginocchio quando gli cede la gamba storpia.

Ricciardi trattiene un sobbalzo, a quel mancato attacco, e avverte lo sfiato contratto di Cesarano dietro di sé. Di nuovo incurvate, le spalle di Esposito si alzano e si abbassano in un ritmo serrato di terremoto, il respiro reso fischiante e discontinuo dai singulti che ancora lo scuotono. Si tiene un polso e, da sotto al palmo ampio, straborda uno stillicidio di sangue nel punto in cui è stato colpito di striscio.

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