Capitolo uno

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Un anno prima...

CONNOR

«Cristo, spegni questa cazzo di sveglia!»

Apro gli occhi a fatica, le urla di mio fratello hanno funzionato più della sveglia, che era rimasta un rumore di fondo nei miei sogni. La spengo e mi siedo sul letto. Martha, accanto a me, si lamenta nel sonno perché le ho spostato la coperta. Mio fratello, nel materassino gonfiabile ai piedi del letto, si copre gli occhi con le braccia e impreca.

«Ma che cazzo è tutta sta luce?»

«Sono le otto, Caleb, devo andare a lezione,» borbotto, mentre trovo la forza di alzarmi dal letto. «E non posso restare qui a controllare che non affoghi nel tuo stesso vomito, quindi alzati.»

Lui fa un verso contrariato.
Scuoto leggermente la mia ragazza.
«Martha, svegliati, dobbiamo tornare a Cambridge. Faremo tardi.»

«Non me ne frega un cazzo, resto qui a dormire,» risponde, la voce arriva ovattata perché ha infilato la faccia nel cuscino.

«Buongiorno anche a te,» borbotto, passandomi una mano tra i capelli.

Fa un mugugno indistinto e io sbuffo. Non ci si può mettere anche lei, adesso. Mi maledico per essere andato a recuperare mio fratello ed essere dovuto rimanere a Londra. Mi sento un padre attempato con un figlio adolescente. È imbarazzante avere diciannove anni e dover essere il più responsabile in famiglia.

«Fai come ti pare, Martha, ma ti ricordo che oggi pomeriggio hai l'esame di metà semestre di microbiologia per cui piangi da due settimane. Se non ci vai mi incazzo,» le dico, mentre mi guardo intorno. In casa di Caleb sembra esplosa una bomba. Si è trasferito qui quando ho cominciato a frequentare l'università, perché non voleva rimanere a casa da solo con nostro padre, ma è evidente che non ha idea di cosa significhi traslocare. Metà degli scatoloni che ho aiutato a portare dentro questo buco di appartamento ad Islington, a nord di Londra, è ancora in attesa di essere aperto e sistemato.
Nonostante siamo gemelli omozigoti, non potremmo essere più diversi: io ordinato, analitico, razionale e scazzato col mondo intero, lui disordinato fuori e dentro, ma affabile, socievole e anima della festa. Peccato che poi a essere responsabile e passare da cattivo tocchi sempre a me, perché da Caleb nessuno si aspetta mai un cazzo. Due sorrisi, due moine, e a me poi tocca mettere tutto a posto. Sono talmente a disagio in questo disordine che mi appunto di passare il prossimo fine settimana a sistemare.

Trovo i vestiti che indossavo la sera prima piegati sulla sedia, dove li avevo lasciati. Li afferro controvoglia e osservo Martha convincersi finalmente ad alzarsi. Un bottone della camicetta all'altezza del petto si è sfilato dall'asola e il seno cerca la libertà tra il tessuto. Complice quella vista e l'alzabandiera mattutina, il mio uccello sussulta.

Martha fa per venire nella mia direzione e pesta per sbaglio una gamba di Caleb, che, ancora con gli occhi chiusi, si ritrae ed emette un gemito di dolore.

«Merda, Cal, scusami!» esclama, contrita. Si abbassa verso di lui praticamente mettendogli le tette in faccia. Caleb apre gli occhi ma se li copre immediatamente con le mani non appena si rende conto di avere le sue tette a una manciata di centimetri di distanza.

«Ma che cazzo, Martha, copriti!» sbotta lui.

«Sono solo tette, Dio mio,» borbotta Martha, abbottonandosi. «Stai bene?» domanda. Tenta di celare l'imbarazzo ma noto che le guance le si sono comunque imporporate.

«Sì, cosa puoi mai farmi, pesi venti chili,» borbotta Caleb, burbero. Un'ombra passa all'istante sul viso di Martha. Riesce a nasconderlo, ma non a me.

«Cal,» lo ammonisco, perché odio quando fa questo tipo di commenti. Conosce Martha da più tempo di me e sa benissimo quanto lei fatichi ad accettarsi, tra la dismorfia e i disordini alimentari, nonostante sia oggettivamente la ragazza più bella che io abbia mai visto.

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