Tornare ad abbracciare il sole e la luce ha il sapore dolce e violento di un'apnea interrotta a un soffio dall'asfissia. L'aria granulosa di scirocco si è diluita un poco, lasciando però un color seppia sbiadito a tingere il mondo e le facciate dei palazzi. Il vento dichiara pioggia dal mare, portando con sé l'orma dura della salsedine.
Ricciardi inspira il miscuglio di odori caotici, pregni di vita, che lo assale non appena mette piede fuori dall'accesso alle catacombe. Cammina in testa alla sua squadra e finge di dimenticarsi di Esposito, scortato appena dietro di lui.
Non passano inosservati, nel loro traversare il breve tratto fino alla Questura. Occhi curiosi si voltano al loro passaggio o si affacciano dalle finestre, accompagnati da sussurri e da qualche esclamazione più ardita: chi esulta per l'arresto, dando per ovvio il buon operato della Polizia; chi insulta e critica a mezza bocca, dando per ovvio il contrario. Degli scugnizzi di strada prendono a tallonarli a distanza, in un coro di schiamazzi esaltati alla vista imponente di Esposito. Un manipolo di camerata che incrociano si mette sull'attenti e fa loro il saluto con vigore esasperato; Ricciardi li ignora, fiutando il sottotono di scherno.
Ignora anche tutti gli altri, sentendosi al centro di una processione vòlta al pubblico ludibrio. Esposito, le poche volte che si gira a guardarlo, ha gli occhi spenti e arrossati persi nel vuoto che, a tratti, assumono la sfumatura confusa e meravigliata di un bambino che osservi sognante un qualcosa di sconosciuto.
Il tragitto dura poco meno di un quarto d'ora, ma sembra dilatarsi nel tempo; al punto che, quando infine varcano l'arco della Questura, Ricciardi non sa quasi spiegarsi come vi siano arrivati. Procede attraverso il cortile interno e infine nell'atrio d'ingresso, la schiena irrigidita in tiranti d'acciaio tesi che si ripercuotono sul braccio dolente.
Nessuno si palesa ad accoglierlo. Né Garzo né il suo assistente, Ponte, gli si fanno incontro concitati come avviene sovente alla risoluzione di un caso, tali e quali a segugi da riporto che fiutino una preda uccisa da altri, pronti a portarla scondinzolanti al loro padrone.
Anzi, l'austero edificio è immerso in una densa calma di bonaccia, con poco viavai d'agenti e altrettanto poco rumore di fondo a riempirlo. Con tutti quei marmi e targhe e busti, sembra più un mausoleo che un luogo di giustizia.
Ricciardi, sebbene gli si stringa un nodo inquieto in gola, non perde tempo ad aspettare la tempesta all'orizzonte: dà ordine di portare Esposito nella stanza di detenzione e si prepara a interrogarlo, finché ne ha la possibilità. Prima che glielo sottraggano dalle mani.
Declina gli inviti accorati di Camarda ad andare in ospedale per farsi sistemare il braccio. Si limita a ripulirsi alla meglio il volto, striato di polvere e di uno sbaffo di sangue vicino all'occhio, dove hanno impattato le manette.
Accetta solo di farsi aiutare da Cesarano a togliere il soprabito insozzato e a risistemare il tutore di fortuna: quasi sviene per quella semplice operazione, ma non si lascia frenare né dagli sguardi di riprovazione dell'appuntato, né dal dolore ormai costante che gli gratta con un seghetto contro le ossa dislocate e scheggiate.
Vuole chiarezza assoluta, su quel caso, e la vuole ora. Sebbene avverta, con una fiammella di vergogna a incendiargli il petto, la propria reticenza nel ricercarla; la subdola tentazione di lasciarsi quel caso alle spalle, sperando che non continui a rincorrerlo.
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La Ruota degli Angeli
Misterio / SuspensoNapoli, 1934. Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato a vedere i fantasmi delle vittime con i propri occhi. Una rapina finita male, con dei dettagli che, però, non tornano. Non tornano né a lui...