Succede tutto troppo in fretta.
Ricciardi non ha nemmeno il tempo di urlare, quando morse feroci gli stritolano i bicipiti e dissestano l'osso disallineato in un cozzare di tendini e legamenti spezzati. Non ha il tempo di opporsi, quando lo strattonano, lo afferrano per i capelli, lo obbligano a voltarsi e lo trascinano di peso, uno per fianco, oltre l'arco d'ingresso: sulla strada scorge un'automobile nera col motore acceso.
Dicono che la paura abbia grinfie gelide, rassomiglianti la morte. Ricciardi, la morte, la conosce fin troppo bene, e quella che gli si getta lungo la spina dorsale è invece una colata lavica che gli incenerisce ogni nervo, poiché le mani che lo ghermiscono sono vive, violente e impietose quanto la vita.
Torce il capo verso Bruno quando lo sente urlare oltre il velo di sangue roboante che gli ovatta le orecchie.
«Lasciatelo, bastardi!»
Solleva il mento sopra la spalla, strappandosi i capelli ritorti tra dita impietose, e lo vede avanzare verso di lui in rapide falcate. Maione gli tiene dietro, pencolante, la mano libera premuta sulla fondina.
No. No, è quello che vogliono.
Smette di opporre resistenza, i tacchi delle scarpe che sbatacchiano tra loro sul basolato viscido. Il braccio grida e lui assieme, si contorce, sente l'osso muoversi in modo innaturale nello snodo del gomito quando lo premono verso il basso. La portiera dell'auto si apre. Dietro, lo scalpiccio affrettato, lontano, dei passi di Bruno. Non si ferma – non si ferma.
Torce il busto all'indietro mentre già lo stanno spingendo dentro il veicolo. Pianta il palmo sano contro il telaio. Si scrolla di dosso, per un singolo istante, l'uomo che lo tiene sulla destra – e grida, un pugnale che gli sferza le corde vocali:
«Raffaele, fermalo! Fermalo, ti prego!»
Una mano gli ghermisce di nuovo i capelli e lo strattona. Gli arriva un colpo alla tempia quando la sbatte contro il tettuccio dell'auto; l'aria cambia, diventa più asciutta e soffocante mentre lo scaraventano all'interno, premuto sui sedili di pelle. Si accascia sul braccio offeso e le vertigini lo colgono, lampi neri che gli pulsano dietro le palpebre.
Oltre un velo sfocato e l'agente dell'OVRA che lo sovrasta, in uno spiraglio di grigio, vede Maione che afferra Bruno in avanzata per la giacca, tirandolo indietro. Il medico si divincola, incespica, scalcia e lancia gli occhi oltre l'arco, verso di lui.
Ricciardi avverte qualcosa di freddo e metallico premergli sotto la giacca, tra le costole, a corredo di un ordine soffiato. Non vi fa quasi caso, ma si raddrizza a sedere, le pupille incollate all'esterno.
Gli annega un grido nel petto, intrappolato tra le costole tremanti. Tutto quello che vorrebbe dirgli non può urlarlo, neanche ora. O sarà peggio. Per lui, per Bruno; e Bruno deve vivere, deve rimanere libero, perché a stare in gabbia ne morirebbe.
La portiera si chiude a un soffio dal suo viso con uno scatto secco di libertà preclusa. Il tempo si fa di melassa, gli scorre addosso in melma viscosa e distorce la realtà, rendendola sfocata e al contempo troppo piena di dettagli.
Oltre il vetro appannato dal suo respiro e picchiettato dalla pioggia fine, di cui distingue ogni singolo, tondeggiante alone argenteo, vede i fotogrammi annacquati di una pellicola lontana. Non sembra nemmeno la vita reale, ma frammenti impazziti, troppo vividi; eppure, ode le voci attutite come sott'acqua:
«Lasciami! Che sfaccimma fai?!»
«Dottor Modo, fermatevi!»
«Lasciami! Cani maledetti!»
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La Ruota degli Angeli
Mystery / ThrillerNapoli, 1934. Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato a vedere i fantasmi delle vittime con i propri occhi. Una rapina finita male, con dei dettagli che, però, non tornano. Non tornano né a lui...