IV

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Jessica era felice della sua vita, fino a due anni prima.
Non sapeva nemmeno tutt'ora come faceva ad andare avanti, come riusciva a concedersi piccoli spazi della vita quotidiana solo per lei, anche solo cinque minuti, per pensare, riflettere o lasciarsi andare, per capire davvero cosa potesse fare per non cadere nel buio.
Era dell'idea che un adolescente era molto più forte di un adulto. Un ragazzo riscontra tutto per la prima volta e può sbagliare, capire come rimediare, invece un adulto riflette sempre su quello che deve e non deve fare, causandosi molti dubbi e quindi la sua forza svanisce con il tempo nell'oblio, così come le loro menti.
Un adolescente è più forte perché nonostante tutte le prime volte, riesce sempre a provarle; un adulto, ha sempre paura di sbagliare di nuovo e quindi non riesce ad andare avanti, rifugiandosi in se stesso.
Jessica molte volte avrebbe voluto ritornare giovane e vedere come avrebbe reagito a quella situazione, peccato che non poteva e doveva convivere con la paura di precipitare.
Tutto ciò che avrebbe voluto fare era volare via.
Il problema era che non possedeva delle ali e quegli arti mancanti nella vita quotidiana si chiamavano responsabilità, alle quali Jessica non poteva fuggire via.
Nel complesso era soddisfatta della sua vita. Ricordava gli anni della sua adolescenza con un sorriso, riviveva quei tormenti nei suoi figli ogni giorno.
Era proprio in quegli anni che aveva incontrato George, suo marito. Molte volte si sorprendeva nel pensare quanto lo amasse ancora nonostante tutti gli anni passati; spesso si sorprendeva di provare le stesse sensazioni ogni volta che uscivano solo loro due, ogni volta che facevano l'amore, ogni volta che baciava le sue labbra e sentiva la sua barba pizzicarle la pelle.
Si sorprendeva nel pensare a quanto fosse ancora vivo il suo desiderio per lui.
Suo marito era la sua ancora, colui che la sorreggeva, la portava avanti e le faceva svanire quella paura costante.
Essere madre era una cosa indescrivibile, la faceva sentire piena e splendente. Era soddisfatta dei suoi figli, li amava tutti e cercava sempre di non essere apprensiva con nessuno di loro, se non con la piccola Renae, che avendo solo un anno, esigeva delle attenzioni maggiori agli altri.
Anche Rich richiedeva attenzione, ma in ambito completamente diverso. Jessica si stupiva della forza che le dava suo figlio attraverso quegli occhi diversi, sdraiato nel suo letto, come se fosse un insetto.
E quel piccolo insetto stava per essere schiacciato da una scarpa mortale.
Il respiro di Jessica si bloccava ogni volta che pensava alla malattia di suo figlio. Quella malattia che glielo avrebbe portato via.
Non avrebbe potuto partecipare al suo matrimonio, piangere per lui e per la sua amata. Avrebbe detto arrivederci prima di lei, prima che lei sarebbe andata via. Non l'avrebbe potuta aiutare a mangiare quando sarebbe stata troppo vecchia oppure non avrebbe potuto appoggiarsi alla sua spalla quando suo marito fosse morto.
Non avrebbe mai potuto vederlo diventare uomo, che non sapeva nemmeno se lo poteva considerare tale, visto che lo vedeva sempre come il suo bambino.
Lui, l'unico maschio, l'amore della sua vita.
Il suo ventunenne costretto a sopportare un peso così grande, un peso che lui prendeva così alla leggera tanto che Jessica avrebbe voluto essere lei malata e non lui, avrebbe voluto sopportare tutte le chemio, tutte le terapie, tutti gli esami al suo posto.
Perché non c'era niente di peggio nel vedere il proprio figlio stare male e non fare niente, semplicemente stare lì a guardare.
Morire, quasi, con lui. L'unica differenza era che lei stava morendo dentro, soffocata dalla paura di perderlo, mentre Rich veniva soffocato dal cancro.
Un genitore non dovrebbe mai vedere suo figlio morire.
Il telefono squillò e Jessica corse a rispondere: «Pronto?»
«Ciao, Jeje.»
«Ciao, Jay, come stai?» chiese Jessica tenendo il telefono tra l'orecchio e la spalla per poter continuare a preparare la cena per la piccola Renae.
«Bene, direi. Ho un nuovo studente.»
«Davvero? Come mai è arrivato così tardi?» chiese curiosa, a che lei sapeva, il secondo quadrimestre era già iniziato.
«Da quanto ho saputo si è appena trasferito, mi piace come ragazzo.»
«Già dopo un giorno?» chiese ridacchiando mescolando la pappa.
«Sai che li inquadro subito.»
Jessica annuì alzando un sopraciglio e appoggiò in tavola il piatto, poi prese un cucchiaio e iniziò a imboccare la piccola, facendo il trenino.
Nessuno avrebbe mai immaginato che la signorina Finch, docente di superiori, e Jessica potessero diventare così amiche. Innanzitutto per la differenza d'età: avevano più di dieci anni di differenza, poi s'aggiungeva anche il fatto del carattere. Una era schietta, amante delle scienze e dedita all'insegnamento, l'altra era dolce e viveva alla giornata.
Erano così opposte che era come se un magnete avesse rifiutato la scarica dalle due calamite, facendole incontrare nella strada inversa.
Si erano conosciute a un banalissimo incontro tra genitori e docenti, Jessica era andata per sentirsi dire che Rich non era portato alla matematica, invece la signorina Finche le aveva detto che suo figlio poteva arrivare perfino a ottimi risultati, se solo ci avesse provato.
Alla fine dell'anno Rich aveva raggiunto quasi il massimo dei voti, facendo sì che Jessica si complimentasse con Jay.
Grazie a Rich, sua madre aveva incontrato la signorina Finch e da lì erano sempre state ottime amiche. Nonostante l'amicizia profonda, Jay non era un'amica di famiglia, quindi Rion e Rylee non la consideravano come tale, nonostante sapessero che si sentiva molto con la loro madre.
«E' in classe con Rion?» domandò Jessica.
«Sì, lo sai che Rion è sempre più stanca in questo periodo?»
«L'ho notato.» mormorò la donna. La situazione di sua figlia era un altro fatto che rischiava di farla cadere nell'oblio. Nel giro di quattro mesi, Rion era cambiata radicalmente e il brutto era che Jessica non riusciva a spiegarsi in che cose fosse mutata.
Era come sempre silenziosa e non diceva mai nulla se non forzata a parlare, ma oramai quella era una caratteristica che aveva da quando era piccola e la madre non ci faceva nemmeno più caso: sapeva per certa che se Rion avesse voluto iniziare a essere più loquace non ci avrebbe impiegato molto a parlare di più. Il fatto di rimanere in silenzio, quindi, era un comportamento deciso dalla stessa Rion.
Pure il fatto di non avere amici era una cosa normale, Jessica aveva una figlia solitaria e benché all'inizio della sua adolescenza si era preoccupata di questo fatto, vedendo che Rylee si era fatta molti amici, dopo aver parlato con sua figlia, aveva capito che era un altra parte del suo carattere.
Jessica si chiedeva spesso se Rion era nata solitaria o con il tempo avesse iniziato ad amare la solitudine, per sfuggire allo schifo del mondo.
L'unica cosa che le aveva visto erano le profonde occhiaie, ma più di una volta era entrata in camera sua e l'aveva trovata a letto.
Forse era solo stress oppure un periodo no.
La donna molte volte si arrabbiava perché non riusciva a passare oltre il muro qual era la mente di sua figlia. Si chiedeva perché mai sua madre non potesse sapere ciò che le passava per la testa, ma poi si ripeteva che era giusto che avesse i suoi segreti.
«Non sei riuscita a parlarle?»
«Sai meglio di me quanto sia difficile Rion.»
«Non credi che ti possa nascondere qualcosa?»
«Cosa può mai nascondermi una persona che vive nella solitudine?»
«Magari il modo in cui passa questa solitudine.»
«Che intendi dire, Jay?»
«Non lo so, magari ha altri tipi si svaghi.»
«Droga? Fumo? Alcool?»
«Rion non si abbassa a questo livello, Jessica.»
«E' per questo che non so cosa possa procurarle questo grande stress.»
«Magari è la situazione.»
«E' difficile per tutti, Rion è sempre stata la più forte di tutti.»
«Sai quanto tiene a Rich.»
«E' mio figlio, Jay.»
La signorina Finch sospirò bruscamente: «Questo non lo metto in dubbio, ma sappi che tu sei adulta e ognuno interpreta i proprio sentimenti come meglio crede.»

Una volta che Rion entrò in casa finita la scuola fece un salto in cucina, salutò la sorellina con un buffetto sulle guancie e sorrise alla madre.
«Tutto bene, Rion?» chiese quest'ultima.
«Sì, mamma, grazie. - Rispose e si appoggiò alla porta - Tu?»
Jessica sorrise: «Non mi lamento, ti vedo strana, tesoro.»
«Sono solo stanca.»
Rion era stanca fisicamente e mentalmente. Il fatto di dormire così poco la notte per portare a termine la sua missione, la spingeva al limite, facendo sì che oltre al suo corpo ne risentisse perfino la sua testa.
Era stanca di adattarsi a quella società di merda, rimanendo in silenzio.
Stanca di sorridere, di andare avanti, di stare muta e fare finta che tutto andava bene.
Rion era stanca di andare a scuola e portare a casa risultati che un domani non le sarebbero serviti a un cazzo.
Stanca di vivere in quel quartiere, ma al contempo era pure stanca di cercare una via di fuga.
Era stanca di fumare e rifugiarsi nei libri, che la riempivano solo di fottuti sogni.
Rion, alcune volte, era perfino stanca della musica.
«Sì, è stata una giornata pesante.» ribadì, tanto sarebbe stata sempre la stessa merda.
La ragazza dopo aver mangiato e chiacchierato del più e del meno con la madre, si rifugiò in camera sua, decisa a studiare per la verifica di inglese dell'indomani.
Prima di immergere la testa nei libri, controllò quanti soldi avesse sotto il letto e riscontrando che erano circa cinquecento dollari, una piccola fortuna, accese il computer.
Cinquecento dollari non erano per niente sufficienti a portare a termine quello che lei doveva fare prima di lasciare New York.
Doveva raggiungere almeno settecento dollari e ciò comprometteva ancora una settimana di uscite la sera, odiava quel fatto: a scuola stava avendo un calo pauroso, non tanto perché non studiasse, ma poiché era così stanca e stressata che perdeva la concentrazione facilmente e i professori iniziavano a fare domande.
Domande a cui Rion rispondeva con un'alzata di spalle e se ne sgusciava fuori dalla porta.
Nonostante la sua popolarità fosse bassa, possedeva un account Facebook, lì aveva pochi amici: compagni di scuola e Bon.
Bon era il suo Caronte personale.
Rion non sapeva come muoversi nei meandri dell'inferno e l'unica via di fuga fu quella di chiedere una mano e fortunatamente aveva trovato Bon. Lo conosceva da circa un anno e la prima volta che si incontrarono fu durante una delle sue passeggiate notturne, il ragazzo l'aveva scambiata per una prostituta, ma dopo una sguardo fulminante da parte della ragazza, iniziò a parlarle scusandosi.
Fu la prima persona che non si curò del fatto che Rion non parlava, anzi quel fatto giovava in suo favore perché Bon aveva semplicemente bisogno di una persona con cui sfogarsi e non dicesse niente. Rion quindi, era una specie di diario umano per Bon.
I primi tempi la ragazza rimase in silenzio, sentendo i tormenti del ragazzo che erano per lo più di una famiglia assente per i troppi impegni di lavoro, una ragazza non corrisposta e il suo dannato cane che scappava di casa tutte le sere per pisciare.
Dopo circa quattro di mesi, Rion arrivò subito al punto parlando della sua missione, inutile dire che fu la prima volta che Bon la sentì parlare in tutta la sua vita, e quella voce fredda, dolce e soffusa le fece così tanta tenerezza che ascoltò la sua sofferenza e apprezzò la sua solitudine.
Tra di loro c'era una tacita comprensione, sancita dal nulla.
Bon offrì un lavoro a Rion e la ragazza, avendo bisogno di soldi, acconsentì senza pensarci due volte.
Le serate erano diventate più intense negli ultimi tre mesi poiché aveva un bel giro di clienti, prima era vista come la piccola del gruppo, colei che era innocente, ma dopo svariati mesi, Rion riuscì a integrarsi perfettamente.
Così, una volta al mese, andava in posta e spediva i soldi allo stesso indirizzo in cui abitava e ogni mese sua madre e suo padre si trovavano settecento sterline in più, che non sapevano da dove spuntavano, ma le usavano comunque.
Rion, benché sapesse che fosse un lavoro sporco, era soddisfatta di se stessa.

- Bon, mi mancano duecento sterline. - scrisse velocemente.
- Sabato sera? - rispose subito.
- Ci sta, magari riesco a procurarmele tutte in una volta. -
- Spero per te, come sta tuo fratello? -
- L'ultimo esame non ha funzionato, come sempre. Sembra quasi che il suo corpo rifiuti le medicine. -
- Magari è solo giunto al capolinea. -
- Il mio capolinea è il suo, quindi, finché io non lo raggiungo, lui non potrà fare niente. -

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