XVII. Credemmo di non morire (come i fiori d'aprile) - Parte 2

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          Il corridoio è lungo, infinito.

Non dovrebbe poter snodarsi a quel modo convoluto, non dovrebbe fisicamente esistere tra le pareti ridotte di un edificio, per quanto esteso.

Tranquilli. Semi agitati. Agitati. Idioti.

Le targhe marchiate da caratteri neri si affastellano dinanzi ai suoi occhi in coreografie di lettere scandite dal suo marciare serrato.

Nessuno lo accompagna. Avanza da solo.

Perché?

Un passo dopo l'altro, con il fiato gelido di una condanna latente che lo incalza alle spalle.

Le pareti bianche d'intonaco fresco si scuriscono man mano; reticoli ordinati ne sfaldano la superficie friabile e si intersecano tra loro, spandendosi come crepe rettilinee su una pozzanghera ghiacciata.

L'aria si addensa, si posa su di lui con note gravi di tufo e umidità marcia, soppiantando quelle acri della creolina e del cloro; il soffitto s'ingobbisce come la schiena di un gatto bizzoso, formando una volta ad arco.

Dietro di sé, a un'occhiata fuggevole, il buio del sottosuolo spegne le luci sfarfallanti del manicomio, che sfuma senza soluzione di continuità nelle gallerie asfittiche delle catacombe.

Si ferma in un ambiente più ampio in cui non ricorda di essere entrato.

Un lettino psichiatrico arrugginito è abbandonato in un angolo tra lanterne a olio tremolanti, ancorato al muro di laterizi, quasi fossero vestigia di un qualche marchingegno di tortura medievale.

I suoi occhi scattano a tentoni nell'oscurità, sobbalzando tra i cunicoli aracniformi che si diramano a destra e a manca da quel vacuo corpo centrale.

Lontana, riecheggia una voce.

Si volta verso il cunicolo che sembra essersi appena spalancato accanto a sé. È una fenditura angusta. Si deforma come buio liquido e finisce col rassomigliare la bocca di un fucile puntato.

Vi si insinua, seguendo la voce. La conosce. Il suo cuore accelera; prende a battergli in gola, appena sotto il pomo d'Adamo.

Come ci è finito, là sotto?

Straccia un sudario setoso di ragnatele col braccio (ne ha uno solo, se ne accorge adesso senza alcun dolore) e svela una sagoma accartocciata a terra, scossa da singhiozzi inudibili. Un lucore perlaceo si propaga dal suo profilo, dalla corona di ricci diafani, dagli occhi vacui sbarrati dalle dita contratte.

Bruno.

La voce gli si incastra tra i denti, muore sulla sua lingua mentre il suo cuore avvizzisce come un fiore reciso. È subito in ginocchio accanto a lui e allunga una mano a sfiorarne la consistenza eterea, irraggiungibile. I suoi polpastrelli incontrano invece il tepore solido del suo corpo, si perdono tra le volute morbide delle sue ciocche.

Lo stringe a sé, vivo, con tanta forza da temere di spezzarlo; lo sente sussultare in singhiozzi assordanti contro di lui, le mani abbarbicate ai suoi polsi. Gli raccoglie il viso tra le mani e sfiora le sue labbra.

Tabacco, colonia, creolina, quel sentore d'estate che si porta sempre addosso.

Ma si distorce, irrancidisce in una raffica di vento sotterraneo: aspira una zaffata di marcio e liquami e piscio che gli chiude la gola. Bruno si deforma sotto il suo tocco; diventa spigoloso, aguzzo, la sua stretta una morsa rapace, le sue labbra sottili, aride come granito e acide.

Lo scansa via da sé, coi battiti che riprendono ad abbattersi a ondate nel suo petto, a trascinarlo verso il basso, schiacciato dalla gravità in un vicolo sordido contro il basolato umido. Si sente afferrare per la nuca e l'aria gli si strozza in gola, densa di muffa e disinfettante.

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