XXXV • CAPUT MUNDI

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Non mi è sembrato di aver mai perso davvero conoscenza. Ho dei ricordi confusi. Di persone che mi prendono e mi avvolgono in una coperta termica. Di luci, di voci, di sirene. Però, quando torno abbastanza lucida da rendermi conto di essere in quella che sembra una stanza di ospedale, non sono in grado di ricordare come io abbia fatto ad arrivarci.

Mi passo una mano sull'avambraccio destro, nel quale è conficcato un agocannula in cui confluiscono tre o quattro flebo.

Mi guardo intorno. Mi trovo in un loculo senza finestre, stretto e dal soffitto basso, permeato da una luce argentea e riecheggiante di ronzii e cicalini di apparecchiature mediche. Dove accidenti mi trovo?

Stacco le flebo ma non rimuovo l'agocannula per evitare che, con la poca coordinazione di cui dispongo, il sangue zampilli fin sul soffitto.

Merda, mi gira la testa. Aspetto qualche minuto, poi libero le gambe dalle coperte e le faccio scivolare a terra. Indosso solo un camice da ospedale celestino e ho un piede fasciato, ma riesco lo stesso a tirarmi in piedi.

C'è qualcosa di strano, però. Mi manca... mi manca un pezzo d'appoggio? Credo di aver perso un paio di dita.

Non importa. Non sono così affezionata alle mie dita dei piedi da lasciare che esse mi distraggano in un momento del genere.

Perché adesso comincio a ricordare qualcosa. Ricordo di essere stata rapita da un Tacito, per esempio. E ricordo di non avere la minima intenzione di scoprire cosa intenda farsene di me.

Barcollo fino alla porta scorrevole, stendo un dito rigido e intorpidito e premo il pulsante di apertura. Non nutro alcuna reale speranza, mentre lo faccio. E invece si apre. Sgattaiolo fuori. È strano che non abbiano messo nessuno a sorvegliarmi, credo. È strano anche che mi abbiano medicato il piede, in effetti.

Che razza di posto è questo? Il corridoio è ampio e luminoso. Troppo, per lo stato attuale dei miei occhi. C'è una lunghissima striscia di LED sul soffitto di cui non riesco a vedere la fine. Perché sulle pareti ci sono questi maniglioni?

«Ah, bene, vedo che sei sveglia» sento alle mie spalle.

Riconosco questa voce. La riconoscerei tra mille.

Sono qui per aiutarvi, mi ha detto, l'ultima volta in cui l'ho sentita. Non avere paura, Merula.

È lei. Lui. Il Tacito. Usando il piede tutto intero come perno, mi volto.

E ora sono faccia a faccia con il Tacito. Che, però, non è affatto un Tacito. È una donna di circa trentacinque anni. Metà della sua testa è rasata, dall'altra metà fluisce una lucente cascata di capelli castani lunghi e lucenti. Indossa una tuta bianca realizzata in un materiale che non conosco, ma che mima alla perfezione una pelle glabra e traslucida e, sotto il braccio, stringe un casco bianco.

«Chi sei?» domando.

«Mi chiamo Clelia».

«Clelia come?»

«Clelia e basta. Vuoi seguirmi, per favore?»

«Ehm, dunque... no?» le rispondo. «Che posto è questo? Dov'è Settimo?»

«Chi o cosa è Settimo?»

«Il ragazzo che era con me quando mi hai trovata».

«Ah, certo» risponde, e scuote appena la testa per liberarsi la metà sinistra della faccia dai capelli. «Settimo. Vieni, prima dobbiamo procurarti dei vestiti».

 Vieni, prima dobbiamo procurarti dei vestiti»

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